“Lunedì mattina corre veloce alla domenica notte, un urlo mi rallenta prima che il nuovo anno muoia, non ci vuole molto a uccidere un sorriso d’amore e ogni madre con un bambino tra le braccia sta cantando: dammi aiuto, dammi forza, dammi un’anima e una notte di sonno senza paura. Dammi amore, dammi pace, non sai che in questi giorni si paga per tutto? Ho grandi speranze.” 



“High Hopes”, la canzone che dà il titolo al nuovo disco di Bruce Springsteen, in uscita il 14 gennaio, è una cover degli Havalinas, una oscura band californiana che realizzò un disco a inizio anni ’90 per poi sparire quasi subito (già incisa da Springsteen nel 1996). A leggere il testo, però, non siamo molto lontani dalle cose che il suo interprete ha cantato nell’ultimo decennio. In maniera altrettanto significativa, il disco si chiude con un’altra cover, quella “Dream Baby Dream” dei Suicide con la quale ci aveva già commosso nei concerti del 2005. “Sogna, piccola, sogna, continua a sognare, tieni accesa la luce, tieni acceso il fuoco, apri il tuo cuore dai, apri il tuo cuore, voglio solo vederti sorridere, asciuga i tuoi occhi dai, continua a sognare”. Due brani diversi, in due contesti completamente differenti, eppure accomunati dal fatto che chi li ha scelti lo ha fatto per fissare i confini di un disco che sembra andare a sondare quanta energia ci sia ancora rimasta per ripartire e combinare qualcosa di buono coi nostri sogni e le nostre speranze. 



E così, dopo che con “Magic” aveva espresso la rabbia per l’America dell’ultimo scorcio della presidenza Bush, dopo che con “Working on a Dream” aveva rivisitato gli anni ’60 e cantato di un amore puro e spensierato, dopo che con “Wrecking Ball” aveva dato voce ai delusi dalle grandi promesse di Obama, ecco che con “High Hopes” si torna a parlare di speranze. C’è ancora qualcosa che può tenere su la vita, qualcosa che può farci rimanere in piedi, in questo mondo in cui sembra che si sia toccato il fondo di ogni sofferenza e che non ci sia più niente da salvare? Questa la domanda che sembra essere sottesa nei solchi di questo lavoro. 



“Mi sono svegliato ieri sera al suono di un pesante ticchettio – canta in “Hunter of the Invisible Game” – e uno spaventapasseri in fiamme lungo i binari della ferrovia. C’erano città vuote e piantagioni che bruciavano (…) siamo avanzati attraverso campi di ossa e siamo passati giù nella valle dove la bestia ha il suo trono (…) in questi giorni passo il mio tempo balzando attraverso il buio, attraverso gli imperi di polvere io canto il tuo nome, sono il cacciatore del gioco invisibile”. 

Sembra quasi di risentire gli echi apocalittici del McCarthy de “La strada” o, se preferite, certe visioni infuocate che già comparivano in “The Rising” (disco con il quale “High Hopes” sembra avere diversi punti di contatto). L’io narrante come una sorta di cercatore, girovago all’interno di un mondo “invisibile”, illusorio, forse anche marcio fino alle fondamenta, nel quale però, grazie a Dio, sembra rimasto un nome da cantare: “sento il tuo respiro, il resto è confusione. La tua pelle tocca la mia, cos’altro c’è da spiegare?”. 

È un disco a tratti cupo, dunque, ma a tratti anche rassicurante. 

L’amore non è l’unica risposta ad una sofferenza apparentemente senza ragioni. “Levate in alto le mani!” è l’ossessivo riecheggiare del ritornello di “Heaven’s Wall”, una sorta di spiritual in chiave rock che è anche uno degli episodi più belli del disco: “c’era una donna in attesa al pozzo, ha detto che quell’acqua potrà guarire i ciechi, risuscitare i morti, curare le malattie. Venite uomini di Gedeone, venite uomini di Saul, venite figli di Abramo, ad attendere fuori dalle mura del Paradiso”. Le immagini bibliche, da sempre presenti nella poetica springsteeniana, ritornano qui a disegnare una redenzione possibile per tutti, a patto che veramente la si voglia. Ma la salvezza non è solo per il singolo. È una dimensione comunitaria che viene tramandata di padre in figlio, generazione dopo generazione, per imparare ad amare quello che nella vita è davvero importante: “E ora ascoltate fratelli e sorelle, queste sono le poche cose che vi lascio. La spada dei nostri padri con le lezioni che ci hanno insegnato, lo scudo forte e robusto delle battaglie ben combattute. Questa è la vostra spada, questo è il vostro scudo, questo è il potere dell’amore rivelato, portateli con voi ovunque andiate e date tutto l’amore che avete nella vostra anima.” Così in “This Is Your Sword”, vero e proprio inno di battaglia ammantato di quelle influenze irlandesi che stanno a metà la la Seeger Session e certe cose di “Wrecking Ball”. 

Un viaggio attraverso quelle verità antiche, eppure sempre più nuove ogni volta che vengono pronunciate. Fino ad arrivare alla strepitosa intuizione di “Frankie Fell In Love”, per cui “uno più uno fa tre ed è per questo che si tratta di poesia”. 

 

A dispetto dei timori della vigilia, si tratta di un lavoro piuttosto ispirato e lo si può dire anche dopo pochi ascolti. Un lavoro nato in maniera non canonica, dalla scoperta che, per la prima volta dopo anni, Bruce è sembrato nuovamente avere parecchi pezzi avanzati da riutilizzare. Assemblato in momenti diversi da Ron Aniello e Brendan O’Brien, sfruttando i momenti di pausa del tour e le moderne tecnologie che permettono di lavorare anche a distanza, “High Hopes” contiene outtake rimaste inedite, outtaks bootlegate in precedenza, versioni in studio di cover già eseguite dal vivo, rivisitazioni di un paio di pezzi del passato. Non abbastanza per parlare di nuovo album, dunque. Eppure, a vedere come i testi si incastrano tra loro, ad ascoltare come certe soluzioni di arrangiamenti diano coerenza ad episodi altrimenti totalmente disomogenei, verrebbe davvero da pensare che Springsteen abbia imbastito un progetto coerente con la visione che aveva intenzione di rappresentare in questo preciso momento della sua vicenda umana e artistica.

Non lo avremmo mai detto alla vigilia, ma dopo aver ascoltato il tutto a più riprese, dalla prima all’ultima traccia, bisogna ammettere che questa coerenza non manca. D’altronde solo così potremmo spiegare la presenza di “American Skin”, una canzone certamente non memorabile, scritta quasi quindici anni fa e suonata in lungo e in largo negli ultimi tour.  Oppure la straordinaria rilettura elettrica di “The Ghost of Tom Joad”, un brano che di anni invece ne ha ormai venti, che era già ottimo in versione acustica, ma che qui acquisisce una dimensione epica gigantesca, con le chitarre di Tom Morello a disegnare i paesaggi infuocati di cui abbiamo visto poco sopra e che sono al centro anche di altri episodi del disco. 

Già, Tom Morello. Per molti la vera pietra dello scandalo assieme a Brendan O’Brien. Rei, secondo una larga frangia di fan della prima ora, di avere snaturato il sound della E Street Band, il primo con una produzione eccessivamente compressa e artificiosa, il secondo con interventi di chitarra rumorosi e fuori posto. 

Non mi sembra siano lamentele giustificate: la E Street Band ha cambiato radicalmente sound anche dal vivo, non solo su disco. Sul palco si è arricchita di nuovi elementi; in studio, l’ultimo lavoro realmente realizzato insieme come ai vecchi tempi è stato “The Rising” e già quello suonava in maniera totalmente nuova. E per quanto riguarda Morello, l’ex Rage Against the Machine è semplicemente uno dei tanti amici musicisti con cui Springsteen ha collaborato nel corso degli anni. Può piacere o non piacere ed è innegabile che provengano da mondi lontanissimi. Eppure, non può che essere positivo il fatto che a sessant’anni suonati si abbia ancora voglia di sperimentare soluzioni nuove. 

A questo punto, più che fare il processo alle intenzioni, ora che abbiamo tra le mani il disco finito, occorrerebbe solo giudicarlo per la qualità delle canzoni. E da questo punto di vista, è necessario dirlo, il risultato è buono ma anche altalenante. Di sicuro c’è che la produzione è una delle armi vincenti: il sound è potente e compatto (anche se a tratti fin troppo compresso), c’è una grande abbondanza di chitarre e Tom Morello, su almeno tre o quattro brani, è mattatore assoluto. Bello il modo in cui si intersecano violino e fiati, un po’ meno bella l’assenza quasi totale del pianoforte e la comparsa in alcuni punti di archi sintetizzati. Nel complesso, non è un disco registrato live ma assemblato in studio con una E Street Band che (non abbiamo i credits ma ne siamo abbastanza certi) è stata utilizzata più come un serbatoio di session men piuttosto che come un vero e proprio insieme.

 

Sui singoli brani, il discorso è complesso. Limitandosi a parlare dei sei inediti”, High Hopes” sembra più fresco e più ispirato dei due precedenti. Almeno tre di questi (“Heaven’s Wall”, “Frankie Fell in Love” e “This is Your Sword”) si assestano su di un livello sconosciuto anche ai migliori episodi di “Wrecking Ball”. Le restanti tre non sono indimenticabili ma presentano tutte un qualche motivo di interesse: “Harry’s Place” è un bel rock blues cadenzato e pieno di groove, con il basso in primo piano e un testo che racconta un ambiente di mafia irlandese molto vicino a quello evocato da Martin Scorsese nei suoi migliori film. “Down in the Hole” è una ballata cupa ed eterea al tempo stesso, che anche nelle lyrics richiama le cose più tristi di “The Rising” (“Nothingman” e “You’re Missing” in particolare) e che non è escluso provenga proprio da quel periodo. “Hunter of the Invisible Game” è forse il meno interessante del lotto, con il suo incedere un po’ ripetitivo sostenuto dalla chitarra acustica e da una base di archi non proprio impeccabile. Eppure il testo è tra i suoi più belli degli ultimi anni e le conferisce una forza e una intensità che fanno pensare che sia un episodio che forse crescerà con gli ascolti.

E c’è del buono anche tra ciò che già si conosceva: tacendo della title track, di cui abbiamo già scritto in precedenza, il frizzante pop rock di “Just Like Fire Would” (cover degli australiani The Saints) non brilla per originalità ma si fa ascoltare volentieri. Di “Tom Joad” si è già detto: la si sarebbe vista meglio come bonus track ma poi è talmente bella che va bene anche inserita qui dentro. “Dream Baby Dream”, col suo magnifico crescendo, è ancora più emozionante di come ce la ricordavamo dal vivo e rientra sicuramente tra gli highlight di questo lavoro.

Le uniche ad apparire fuori posto a questo punto possono essere “The Wall” e “American Skin”. Di quest’ultima ho già detto abbastanza: l‘ho sempre trovata pesante e poco consistente, anche nel testo (che pure racconta un fatto grave e degno di considerazione) e questa versione in studio non ne migliora i difetti. “The Wall”, scritta assieme a Joe Gruschecky, ha un testo commovente che torna sul tema dei veterani del Vietnam, con un accompagnamento musicale molto simile alle cose composte per “Devils & Dust” (il brano risale al 2003, due anni prima della pubblicazione di quel disco). Qui viene arricchita dalla fisarmonica e dagli archi, che le danno un tocco un po’ Irish che la rende meno estraneo agli altri episodi del disco. 

 

“High Hopes” è un disco strano, per certi versi unico all’interno della vasta discografia di Springsteen, ma potrebbe essere molto più sensato di quello che sembra. Tra coloro che lo osanneranno a prescindere e quelli che lo bolleranno come l’ennesima caduta di un artista in crisi creativa, preferiamo collocarci nel mezzo: un lavoro complessivamente piacevole, a tratti anche molto bello, da parte di un autore che forse non scriverà più capolavori ma che come uomo ha ancora tantissime cose da dire. E questo, scusatemi, sulla lunga distanza non potrà che fare la differenza.