La notizia della morte di Claudio Abbado mi ha raggiunto tramite un messaggino dei miei alunni del liceo musicale, lunedì mattina mentre ero in classe, in una terza media, a fare lezione su Mozart. Di colpo mi sono accorto di quanto ha da dire la carriera e la vita di questo gigante della musica ad un insegnante come me. Non ho mai avuto il piacere di conoscere Abbado personalmente, né di sentirlo dal vivo, ma l’ho sempre seguito nella sua infinita serie di concerti e registrazioni. Ero un ragazzino quando ascoltai per la prima volta la sua Quinta di Mahler eseguita dalla Chicago Simphony: rimasi sbalordito dall’intensità totale dell’esecuzione. Non dalla sola perfezione, quasi scontata visto il livello artistico, ma dalla vivezza di ogni passaggio.



Ebbi l’impressione di essere di fronte ad un artista che concepiva come essenziale ogni particolare perché risaltasse l’opera nella sua interezza, senza la preoccupazione di porne in risalto alcuni aspetti, ma ascoltando, amando e servendo totalmente la partitura che aveva davanti. Una intensità che offriva totalmente ai suoi musicisti, creando un’unità con le proprie orchestre che raramente si può ritrovare in altri direttori. Lo straordinario valore del ciclo delle sinfonie di Beethoven del 2001, insieme ai suoi Berliner Philarmoniker, al rientro sulle scene dopo l’interruzione dell’attività a causa della grave malattia, più che nella eccezionale luminosità data dalla novità e profondità interpretativa, sta nella potenza del legame profondissimo tra il direttore e i suoi musicisti. Le immagini di quegli sguardi reciprocamente commossi tra Abbado e i professori d’orchestra (straordinario l’ultimo movimento della Pastorale in cui a tratti dirige piangendo) sono la testimonianza di cosa sia il legame e la stima profonda tra gli uomini quando si lasciano raggiungere e riempire da una bellezza più grande di sé, quando il direttore non ha nessuna pretesa di diventarne padrone ma ne è il primo servitore.



La bellezza salverà il mondo. Se questa espressione di Dostoevskij pare essere tante volte un concetto nobile ma irrealizzabile, per Claudio Abbado è diventata esperienza. A livello personale, ad esempio nelle fatiche e nella malattia che ha dovuto affrontare, e a livello sociale, continuando a lavorare con i giovani e scoprendo e sostenendo l’imponente “Sistema Musica” in Venezuela del suo amico Josè Antonio Abreu. “Non c’è solo un valore estetico nel fare musica: dalla sua bellezza intrinseca, in grado di comunicare universalmente, scaturisce un intenso valore etico. La musica è necessaria alla vita, può cambiarla, migliorarla e in alcuni casi può addirittura salvarla.” Queste parole del maestro esprimono il cuore della sua vita. La continua voglia di migliorare, di conoscere sempre più a fondo anche il brano diretto decine di volte, la capacità di innovare, il desiderio di capire, la pazienza di ascoltare: tutto nasceva da quella necessità di bellezza per vivere.



Le sue ultime esecuzioni al festival di Lucerna nel 2013 sono l’ultimo ricordo di quella figura anziana e apparentemente debolissima in cui si addensava una forza e una lucidità miracolosa. La forza e la decisione ritmica nella destra, la dolcezza e la sensibilità che plasmava il suono nella sinistra. E quell’amore al silenzio più di ogni applauso o acclamazione: “Accade a volte, nel finale dei grandi capolavori, di avvertire un clima di reale coinvolgimento tra me, l’orchestra, il pubblico: come se tutti trattenessero il respiro insieme. E quando si spegne la nota finale rimane un grande silenzio, come a contemplare qualcosa che è accaduto. Questo silenzio è la cosa che apprezzo di più.” Quel silenzio pieno di musica che ora godrà per sempre.

 

Giovanni Grandi

 

 

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