Il passaggio da una label indipendente ad una major rappresenta sempre un grande passo nella carriera di un artista. E costituisce anche un grosso aiuto per chi deve scrivere del disco in questione. Perché sarebbe fin troppo facile tirare fuori tutta una serie di luoghi comuni su quanto possa essere rischioso un simile step e, soprattutto, su quanto possa essere fastidioso per certi fan della prima ora, quelli per cui “è diventato troppo commerciale”, “era meglio quando non era famoso” e “il primo demo resta insuperabile”. 



Noi non faremo niente di tutto questo. Anche perché, detto tra noi, il quinto lavoro in studio di Dente, nome d’arte di Giuseppe Peveri, non segna nessuna rottura nel proprio percorso artistico. Non si tratta di un disco da major, insomma. Non è un prodotto che una casa discografica avrebbe potuto commissionare. È semplicemente il disco che Giuseppe ha avuto voglia di scrivere dopo “Io tra di noi”, che sembra uscito ieri ma che in realtà ha già tre anni sulle spalle. 



E diciamo subito che “Almanacco del giorno prima” è probabilmente il suo più bel lavoro di sempre. Un disco che ha sempre quel songwriting disincantato e a tratti ironico che è ormai diventato il marchio di fabbrica di Dente. Ma che, nello stesso tempo, presenta arrangiamenti raffinati e un delizioso gusto retrò che sembra guardare direttamente alla canzone italiana degli anni ’60 e forse anche prima. Un disco che è insieme leggero e sofisticato, potenzialmente in grado di scalare le classifiche senza per questo svilire il panorama musicale. Con dei testi (qui sta forse il vero valore aggiunto) che scavano nel personale ma che descrivono al contempo un’esperienza che può essere quella di ciascuno di noi. Di queste ed altre cose abbiamo parlato al telefono con Dente, simpatico e disponibilissimo, proprio il giorno in cui “Almanacco del giorno prima” ha raggiunto i negozi di dischi di tutta Italia.



Iniziamo con una domanda ironicamente polemica, sempre che si dica così. Ascoltando il disco, con tutti questi richiami agli anni ’60 o addirittura ai ’30, verrebbe da chiedere: sei passato dal mondo del cantautorato indie a quello del cantautorato vero e proprio? 

Credo che la parola “indie” sia orribile e oltretutto non denoti neppure un genere musicale. Una volta mia mamma mi ha detto: “Ho letto su un giornale che suoni musica indie, che razza di roba è? (Ride)” Inoltre oggi essere “indie” non significa più nulla, non è neanche più uno stato specifico. Per quanto mi riguarda, ho sempre fatto dischi di cantautorato,  mi considero un cantautore per quello che è il significato che io dò a questa parola: una persona che attraverso i suoi pregi e i suoi limiti scrive canzoni e le interpreta a modo suo. Se noti, i cantautori non sono mai degli interpreti o dei cantanti pazzeschi, è semplicemente gente che attraverso il modo che ha, riesce a fare una cosa personale. 

Il primo pezzo “Chiuso dall’interno” appare un po’ una dichiarazione d’intenti e sembra giocare al ribasso, con tutte quelle iperboli che si concludono poi con l’ammissione che dice più o meno: “Ma io ho solo questo da dare.” Cosa esattamente può fare un artista, secondo te? Dove esattamente può arrivare? 

Guarda, non ho mai pensato, per il fatto di essere un cantautore, di avere chissà che tipo di ruolo. Non voglio neanche darmelo, un ruolo. Questa cosa della responsabilità che noi musicisti avremmo e che ogni tanto mi tirano fuori nelle interviste… Beh, la trovo assurda! Mi piace scrivere, ho bisogno di scrivere per sfogarmi, per dire delle cose che non riuscirei a dire in un altro modo… diciamo che ho un po’ un approccio terapeutico alla scrittura. Se poi le mie canzoni, nel tempo, hanno aumentato il loro bacino di ascoltatori (anche involontariamente, perché all’inizio non le volevo far sentire, pensavo che alla gente non fregasse dei fatti miei), questo non può che farmi piacere. Io scrivo innanzitutto cose mie, poi la gente di si identifica e va bene, ci mancherebbe. Cerco sempre di non pensare che ho un pubblico quando scrivo, altrimenti cadrei in certi meccanismi artificiosi che alla lunga ti danneggiano. 

Quindi non fai come Johnny Marr, quando dichiarava che, quando componeva, pensava a come sarebbero suonati i pezzi degli Smiths nella cameretta dei propri fan? 

No, per niente! Io al massimo penso a come potrebbero suonare sul mio stereo (ride)… 

 

Interessante in “Invece tu”, il verso in cui dici che l’amore è inutile se non si fa più sulle nuvole. Che vuol dire? Che l’amore vero deve essere per forza disincantato e slegato dalla realtà? 

 

È una frase di disincanto che indica la perdita di un certo tipo di amore, anche fisico, nel senso del “fare l’amore”. Quando si è giovani si è effettivamente sulle nuvole, c’è tutto un modo diverso di fare le cose. Hai presente quel pezzo dei Baustelle, mi pare si chiami “La canzone del parco”? Ecco, quel tipo di amore lì. Si tratta di quel tipo di emozioni che ovviamente da adulto non puoi più permetterti perché altrimenti saresti ridicolo. Da adulti si fanno le cose in modo diverso. Non che sia un male, intendiamoci. Però quel perdersi negli occhi di qualcuno in quel modo lì sarebbe bello ritrovarlo, quella cosa della “prima volta” che purtroppo non torna più. 

 

Sempre nello stesso brano, dici che “Chi non muore si ripete”: non è un rischio che tu sembri correre, che ne dici? C’è qualcuno che, nel panorama musicale odierno, secondo te dovrebbe sparire? 

 

Non sta a me dare questi giudizi. Non sono un critico musicale e non mi va nemmeno di  criticare chi non mi piace. Quella frase è ovviamente un gioco di parole ma vuol dire che finché vivi è possibile ricadere negli stessi errori, rifare sempre certe cose. Solo con la morte si smette di vivere. Ricadere in pensieri o cose già fatte, non necessariamente in ambito musicale, contiene anche un aspetto di voler tornare indietro che stuzzica un po’ tutti quanti. 

 

Il titolo del disco e il brano “Al Manakh” contengono una interessante e un po’ amara riflessione sullo scorrere del tempo… 

 

È vero ma è una cosa di cui mi sono accorto dopo, anche in altre canzoni del disco è presente una riflessione di questo tipo. Non scrivo mai pensando di che cosa devo parlare, se viene fuori un certo tema è perché forse in quel periodo ci sto pensando. Sto per arrivare ai quarant’anni, ad un punto in cui, se va bene, sei arrivato a metà della vita. È il momento in cui cominci a fare un po’ di conti, a fare una sorta di inventario, ci pensi, pensi al futuro, al passato, al presente… Mi rendo conto che è una cosa a cui penso anche inconsciamente, per cui per forza di cose poi viene fuori questo mood… Inoltre mi è sempre piaciuto crogiolarmi nel passato. Un po’ perché è sicuro, quello che è stato lo sappiamo, lo conosciamo bene. In realtà il titolo del disco è anche un gioco per andare a ripensare quello che avrebbe potuto succedere e che poi non è successo. Negli almanacchi antichi, quelli del Settecento, dell’Ottocento, erano contenute previsioni che avevano la pretesa di valere per tutto l’anno. Erano profezie, praticamente. Erano cose che si potevano avverare oppure no. È una cosa che succede anche a livello dei singoli, a livello della tua vita. Su una certa cosa pensavi che magari… e invece no! Per cui guardarsi indietro diventa interessante: “ho fatto questo” ma anche: “avrei potuto fare anche quello”. Ci sono porte che si aprono e porte che si chiudono. 

 

Curioso il pezzo conclusivo “Remedios Maria”: sembra un po’ una tua personale “Desolation Row”, con tutti quei personaggi letterari… 

 

Non avevo in mente quel pezzo quando l’ho scritta. È nata più come divertimento. Mi è venuta in mente l’immagine di Penelope che perde la pazienza. E da lì è venuto fuori tutto il resto: se Penelope perde la pazienza, allora altri personaggi cosa potrebbero fare? E così ho pensato che Giulietta si sarebbe tagliata i capelli e sarebbe uscita di casa e che Ofelia si sarebbe iscritta a un corso di nuoto (ride).  È un divertimento ma è anche un po’ cambiare la vita a questi personaggi, far loro prendere un’altra strada, giusto per continuare il discorso di prima. Sono personaggi letterari, hanno un destino scritto… e noi glielo cambiamo!

 

Bene, è venuto il momento di parlare del tuo passaggio alla Sony. Sinceramente non vorrei farti questa domanda ma mi sa che sono obbligato… Te la butto sul ridere: hai già ricevuto lettere di protesta da parte di fan inferociti?

 

(Ride) Beh, quello lì è un meccanismo tipico da fan. Anche a me è successo: segui un artista, lo reputi bravissimo, poi l’anno dopo lo conoscono tutti e ti girano le scatole, è fisiologico (ride). Invece, riguardo a tutto il discorso: “famoso, non famoso”, “indie o commerciale…” Basta! Non se ne può più! Come ho detto anche ieri, durante un’altra intervista, i dischi bisogna prima ascoltarli e poi guardare il logo della casa discografica. E poi la gente non è mai contenta. Non si può mica dar retta a tutti! Prima mi dicevano: “ma che razza di distribuzione hai, ho cercato i tuoi dischi ma non si trovano!” Adesso invece: “che palle! Anche da Euronics!” (Ride) Che poi in tutto questo ragionamento, la musica non c’entra nulla! 

 

Infatti. E poi scusa, se un artista riceve un’offerta più vantaggiosa, sarebbe stupido a rifiutare! L’importante è che gli sia data la possibilità di fare il disco che vuole. Con te mi pare che sia andata così… 

 

Certo! Passare a una major poi aiuta tutti quanti. Se una cosa mi piace, dovrebbe farmi piacere che sia conosciuta da più gente possibile. È una cosa fisiologica che io mi metta a divulgare le cose che mi piacciono. Io ho iniziato ad essere conosciuto proprio così: la gente veniva ai miei concerti, comprava il cd e poi lo passava all’amico. Adesso che i miei dischi li mette in giro la Sony, non va più bene? Per cui la gente che protesta non si rende conto che sta succedendo, su scala maggiore, quello che loro stessi facevano all’inizio in prima persona! 

 

A proposito di inizi: tempo fa leggevo un’intervista a Vasco Brondi in cui raccontava divertito di quando vi telefonavate per capire chi aveva suonato nel posto più di merda… 

 

(Ride) Era tutto molto bello. Guardando indietro, ed io come ti ho detto sono uno che si guarda molto indietro, mi rendo conto che è stato proprio un periodo bello. L’inizio, la giovinezza, era tutto molto bohémien. Si giravano i locali, dovunque ci facessero suonare, me ne ricordo uno a Milano, sui Navigli, un posto che ora non esiste più. Eravamo io e Vasco, entrambi in acustico e alla fine il proprietario del locale ci ha dato 30 euro in due! Mi piace ricordare queste cose come un bel periodo della mia vita, in cui mi sono liberato un po’ dal mio autismo, dalla sensazione di non essere capace; semplicemente un giorno mi sono detto: ma dai, chissenefrega, ci provo! E anche Vasco ha fatto così: all’inizio era insicuro ma poi anche lui si è convertito alla filosofia del “si suona in ogni dove e a qualsiasi condizione”. Bisogna fare così, se vuoi combinare qualcosa, è la stessa cosa che direi oggi ad un ragazzo che vuole iniziare questa strada. Per cui poi è vero, ci telefonavamo qualche volta e uno dei due chiedeva all’altro:” Sei già stato lì?” “Sì, purtroppo l’ho fatto anch’io…” (Ride) 

 

Che poi anche Vasco Brondi ha avuto i suoi bei problemi con il successo… 

 

Certo! Ne ha avuti molti più di me! Io ho fatto le cose più piano, molto lentamente. Mi è piaciuto fare così. Me la sono goduta e ci sono arrivato con più coscienza. Pensa che il primo disco l’ho inciso a 29 anni, per cui ero già rodato come persona. Lui era più giovane all’epoca del suo esordio e ha avuto un successo immediato, è stato messo subito sotto i riflettori, è stato molto più difficile. Abbiamo fatto la gavetta insieme però per me questa è durata molto di più. Ricordo che mi telefonava e mi chiedeva se poteva aprire i miei concerti, poi solo un anno dopo ero io che mi presentavo con la chitarra e suonavo prima di lui, che aveva già Canali sul palco e una folla di gente che lo adorava. È una cosa bellissima ma anche molto difficile da gestire. Sinceramente, preferisco quello che è successo a me…

 

Torniamo all’album. Trovo che sia un disco splendido negli arrangiamenti, curatissimo, forse il più curato della tua carriera, da questo punto di vista. Sei d’accordo?

 

È vero, questa volta mi sono dato di più agli arrangiamenti, li ho elaborati di più, probabilmente quello precedente era un po’ più scarno. Abbiamo messo dentro tante cose,  alla fine risulta un lavoro molto arrangiato ma anche molto semplice. L’abbiamo fatto io e i miei musicisti di sempre e non siamo certo arrangiatori, l’abbiamo fatto tutto a orecchio, non siamo musicisti diplomati al conservatorio, non riusciremmo mai a fare cose troppo complicate e neppure ci piacciono, le cose troppo complicate. Preferiamo le cose semplici che però funzionano, certi strumenti come la marimba, che magari in una canzone fa due cose ma si sente. Un po’ come una puntina di spezia in cucina, insomma.

 

Una curiosità personale, giusto per concludere. Io sono di Varese e anche se da tempo non ci torno più, è una città che mi è rimasta nel cuore, perché è dove sono cresciuto. A parte l’aver inciso per la Ghost Records, che legame hai con quella città? Dopotutto l’hai messa anche nel titolo di una tua canzone… 

 

Mi spiace ma l’unico legame che ho avuto con Varese è stato proprio quello con la mia etichetta, con la quale ho fatto due dischi. Sono andato lì per suonare e per fare degli incontri con loro. L’unica cosa che mi ricordo è un mercatino in centro in cui ho comprato dei vinili. Ma per il resto è una città che non ho mai vissuto più di tanto. Non che mi faccia schifo, è solo che non l’ho mai vista bene… 

 

Mi pare che la conclusione sia ovvia: comprare “Almanacco del giorno prima”. Che poi ci si lamenta sempre che i dischi li vende solo Ligabue…