2003: ‘Qualsiasi persona che legga i giornali potrebbe disperare (…) Da una parte la speranza è irragionevole. Dall’altra l’amore è più grande di questo. Così hai  i due piatti della bilancia: la vita è senza speranza, la speranza c’è. Come tenere in equilibrio questi due fattori in questo strano mondo? Questo è il pensiero che ha portato a questi due dischi’.



2012: ‘La musica è un linguaggio nel quale possiamo esprimere la nostra lotta con ciò che rende umano un essere umano (…) questo è al centro di quello che creò i King Crimson. e oggi (…) ne rimango responsabile. come potrei mentire? se lo facessi, cesserei di essere umano’.

Dal 1969 ad oggi tutta l’opera musicale di Robert Fripp e dei King Crimson (di cui Fripp è stato il collante nel corso dei decenni) è un tentativo di uscire dall’inferno. Questa grande traversata passa attraverso esoterismi e gnosi di varia natura nello sforzo di navigare nella tempesta con nervi saldi e senza cedimenti all’orrore, una traversata alla ricerca di  qualcosa che renda conto di tutte le contraddizioni. 



Ogni disco si  trasforma in una meditazione su questa lotta e la musica si dibatte acuendo le contraddizioni fino ad una catastrofe che a volte rimane irrisolta altre volte trova soluzione. La natura di questa musica è conseguentemente sempre drammatica, anche nei momenti di britannico humor; una tensione che non ha mai lasciato tranquilli i componenti che si sono avvicendati nel dare pensiero, carne e nervi al gruppo (celebre la definizione del batterista storico Bill Bruford ‘la mia casa spirituale con un letto di chiodi’) determinando nel primo decennio una forte instabilità delle formazioni. 



Come una cometa appartenente al sistema solare il gruppo si situa all’interno della cultura rock, ma con orbite talmente eccentriche che rendono questa appartenenza a volte irriconoscibile e determinano periodi di silenzio all’esterno del sistema solare. Ogni sforzo artistico è il tentativo di forgiare le parole che ancora non esistono per placare la nostra sete, ma ogni nuova formula scoperta esaurisce nel processo di sviluppo delle proprie potenzialità; normalmente, con il ritardo di un’onda, la reazione del pubblico arriva vero la fine del processo e costringe i gruppi rock a perpetuare la formula fino allo sfinimento. 

Una delle diverse anomalie dei King Crimson invece è stata quella di interrompere l’attività nel momento in cui veniva percepita la fine di un ciclo, aspettando che nuove vie si presentassero da percorrere. Tracciando così una discografia, come accennato, con diversi buchi temporali,  ma con pochissimi punti di cedimento. (“King Crimson is, as always, more a way of doing things. When there is nothing to be done, nothing is done: Crimson disappears. When there is music to be played, Crimson reappears. If all of life were this simple” Robert Fripp)

La cosa impressionante nell’affacciarsi sull’universo crimsoniano è l’assoluta coerenza dell’intero repertorio nella più varia diversità delle formule scoperte nel corso degli anni: basta confrontare le improvvisazioni live delle varie epoche raccolte nella bootleg series della collana del Collector Club curata da Robert Fripp dagli anni ’90 (valgono l’acquisto solo per i libretti). I King Crimson a fine anni ’60 sono stati capostipiti di quel rock sinfonico che avrebbe avuto molto seguito negli anni ’70 e subito intrapresero altre strade: nei loro dischi è passata la musica sinfonica, il bolero, John Coltrane, Django Reihnard e l’improvvisazione collettiva jazz; echi di musica indiana e Stravinskj, la musica da camera di Bartok, il minimalismo e le tecniche di phasing di Steve Reich; la rivoluzione timbrica portata da Adrian Belew, scale sintetiche e intrecci di chitarre, Bill Bruford e la batteria jazz prestata al rock, Bill Bruford e la batteria elettronica, i timbri dello stick di Tony Levin e della warr guitar di Trey Gunn; le immersioni nella musica classica contemporanea dei soundscapes in cui ritmo, melodia ed armonia perdono i loro contorni; ritmi dispari e musica dance, pop music e poliritmi, fusion e percussioni dal giappone; i campionamenti di Pat Mastellotto, Jimi Hendrix e il nu metal, l’eredità dei Beatles portata in dote da Belew. 

Tutto materiale che si orienta come limatura di ferro lungo le linee di un invisibile campo magnetico. e ci vorrebbe un libro per raccontarlo.

Ma se c’è qualcosa di maggiormente impressionante è la continuità ideale dei testi delle canzoni in quanto non provengono dal testimone e custode dell’opera crimsoniana, ma da altri autori (Pete Sinfield ’69-’71, Richard Palmer-James nei successivi ’72-’74, Adrian Belew  ’80-’84, ’94, 2000-2003, e ultimamente Jakko M. Jakszyk 2011) delle più diverse estrazioni e stili compositivi.

Ma bisognerebbe scrivere  un libro per raccontarlo. Anzi, no. 

Proprio un libro siffatto è stato pubblicato recentemente a firma di Donato Zoppo, “King Crimson – Islands – Testi commentati (Edizioni Arcana) che viene a riempire uno scandaloso vuoto editoriale (gli unici due libri in italiano sono usciti negli anni ’80) verso questo singolare caso musicale.

Come in una ‘Young person guide’ l’autore guida il lettore con molta leggerezza attraverso una ricca galleria di rimandi culturali che hanno lasciato traccia nei versi delle canzoni del gruppo. Si districa con molta semplicità e gusto attraverso le varie tesi interpretative, vagliandole in modo critico e citando puntualmente le fonti per eventuali approfondimenti. Il maggior spazio espositivo è preso dall’opera di Sinfield data la densità  poetica e il suo peso nell’atto fondativo del gruppo. Ma non trascura il prologo di Giles, Giles and Fripp attorno al quale si coaguleranno gli altri componenti. E non si sottrae all’“esegesi” della ricostruzione del nome: ‘Belzebù o l’uomo con uno scopo’ cioè il daimon della cultura classica greca, il demone  che permette la comunicazione con l’ultraterreno, ma anche Federico II lo stupor mundi che negli anni di S.Tommaso d’Aquino anticipa il pensiero magico rinascimentale, ‘Il nome King Crimson era mio. Volevo qualcosa di simile a Led Zeppelin, qualcosa che avesse potenza, qualcosa di meglio rispetto a Giles, Giles and Fripp. I King Crimson avevano questa arroganza” (Pete Sinfield). Prosegue inoltre ad illustrare l’opera di Richard Palmer-James, forse la meno conosciuta tra gli appassionati, mostrando l’influenza dell’autoesilio dell’autore inglese a Monaco sul clima delle liriche e rivelando fonti di ispirazioni sorprendenti. Passa poi ad esaminare l’opera più singolare di Adrian Belew, il cui peso spesso non è adeguatamente riconosciuto nella vita dei King Crimson: oltre che autore dei testi lo è anche di molta parte  musicale, inoltre per la prima volta chi scrive i testi ricopre un ruolo attivo nella vita del gruppo come cantante e altro chitarrista nell’incarnazione degli anni ’80, del ’94 e dei 2000.

 

Molto interessante, per una band così legato al mondo del rock e nello stesso tempo costituente quasi un corpo estraneo a questo mondo (Three of a perfect pair), è l’opera di contestualizzazione di Donato Zoppo rivelando inaspettate influenze sia in ambito letterario che in ambito rock. 

Se di alcuni autori come Bob Dylan si poteva percepire l’ispirazione nella posizione di profeti inascoltati (la sienfildiana “I talk to the wind” ha un filo diretto con la dylaniana “Blowin’ in the wind”, ma anche “ Catch the wind”  di Donovan ) di altri rimangono tracce implicite (c’è anche una canzone sullo scioglimento dei Beatles). Nell’epoca di Sinfiled passiamo dai testi indiani ai miti greci passando per l’Ulisse dell’Odissea, l’alchimia di Jung e fonti esoteriche varie, Gibran Peacok, Crowley (occultista citato anche nella copertina ,del sgt. Pepper). Abbiamo invece Orwell ma anche Jeff Beck (Jeff Beck?!?!)  piuttosto che Rembrandt o il Dylan Thomas  di “Sotto un bosco di latte” con Palmer-James, oppure ‘The sheltering sky’ di Bowles e la beat generation, (Jack Kerouack, Neal Cassidy la rivista Neurotica, ‘Heart beat’ di Carolyn Cassidy e l’urlo di Ginsberg) piuttosto che Shakespeare o T.S.Eliot attraverso le varie epoche di Adrian Belew.

Il saggio termina con la presentazione di Scarcity of miracles il disco del 2011 di Jakko M.  Jakszyk, Mel Collins e Robert Fripp con Tony Levin e Gavin Harrison, un disco quasi cremisi che si annovera tra i Crimson Projekct, i progetti usati come schizzi preparatori per gli affreschi musicali dei King Crimson e l’annuncio, di Robert Fripp del ritiro dalle scene musicali. Ritiro prontamente smentito dall’annuncio della nuova incarnazione, a più di dieci anni dall’ultima, con la stessa line-up di Scarcity più il “nuovo batterista storico” Pat Mastellotto e il batterista Bill Rieflin della scuola frippiana (si…tre batterie). 

Così questo libro diventa il modo migliore per introdursi al corpo dell’opera del re cremisi e prepararsi all’imminente prossimo capitolo ancora da scrivere.

(Pierluca Mancuso)