“Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa ed il cuore di simboli pieno”: alzi la mano chi non si è mai sentito così. “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa ed il cuore di simboli pieno”. Stai partendo, te ne stai andando da qualcuno o da qualcosa. Dondolato dal vagone, mentre tutto passa davanti, tutto sta scorrendo veloce. E c’è qualcosa che sfugge. È l’autore stesso, Francesco Guccini, a definirlo “un momento in cui l’irrazionale prevale sul razionale”.
Nel 1976, in una lezione-intervista ai microfoni di una delle tante radio libere del tempo, Guccini prese Incontro, verso per verso, e la sezionò. Il risultato è strano: il risultato sembra quello di un arazzo scucito. Niente altro che fili. No, non è questo il modo di fare. Oppure, forse, è vero che una canzone è qualcosa d’altro, qualcosa che sfugge alla stessa volontà del suo creatore, alla stessa volontà di chi le compone. È come se fossero là, nell’aria. E la mano di chi le scrive non le inventa ma le cristallizza, fermando ciò che già c’è su di un foglio di carta.
“Siamo qualcosa, frasi vuote nella testa ed il cuore di simboli pieno”. Ditemi chi non si è mai sentito così. Guardando fuori dal finestrino di un treno. Passano le colline, passano svelte le vigne e il verde dei campi. E magari hai appena lasciato indietro di te qualcuno. Qualcosa che è successo, un fatto, un incontro. E ti prende quell’assurda nostalgia. Quell’assurda nostalgia. La stessa che ti prende mentre guardi quei due, Samantha ed Andrea, sui gradini delle scale di un policentro attrezzato comunale, e ti passa davanti tutta la tua vita (dalla canzone Samantha). Chi non ha mai provato quella assurda nostalgia lì? Che poi forse non è nemmeno una nostalgia vera e propria quanto forse una “nostalgia che ti prende per il non provato” (dalla canzone Argentina). Alzino la mano. Tanto non gli credo.
Però in Incontro c’è di più. C’è una consapevolezza profondissima e struggente. Quella stessa consapevolezza che permeava tutti i versi di Leopardi, di Gozzano, di Leonard Cohen. “Cara amica, il tempo prende, il tempo dà. Noi corriamo sempre in una direzione ma qual sia e che senso abbia chi lo sa”.
Quale è il senso di ogni gesto, il senso di ogni mossa, il senso delle “luci del buio di casa intraviste da un treno”, dei “sogni senza tempo, delle impressioni di un momento”.
Dove vanno? Che senso ha rivedere una persona dopo quindici anni? Ciascuno con la sua storia, con il suo bagaglio di umanità e di dolore. Raccontarsi quindici anni di storia e scoprirsi personaggi di quei film che si guardavano da ragazzi. Lei, una cara amica, tanto cambiata quanto sempre uguale, è il pretesto di un’esplosione. L’esplosione del cuore. Tutto viene a galla. Tutto è compiuto e impercettibile nel compiersi.
Chi non si è mai sentito così alzi la mano. Tanto non gli credo. In Incontro c’è tutto. Le “stoviglie color nostalgia” sono gli occhi azzurri della Signorina Felicita di Guido Gozzano. Che è poi la felicità. La felicità che sembra sempre sfuggire dalle mani. È lì, a portata di mano. Eppure poi tutto sfuma e la nebbia ci circonda. Le parole non bastano per descrivere quell’incontro. Non bastano perché nessuna parola può spiegare quell’assurda nostalgia che si prova. Ci si rifugia nei miti, magari nel mito americano. Peccato che neppure quello tenga. Non tiene perché cercare di incollare lo squarcio di quell’assurda nostalgia è come chiudere una falla in un ponte con il vinavil. Non tiene. Prima o poi si squarcia. Ci si sente nuovi, lì per lì.
Ma “siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa ed il cuore di simboli pieno”. Siamo incompleti, manca sempre qualcosa in noi.
Guccini è maestro nel descrivere questa situazione umana, questa fragilità assoluta, sospesa fra un senso di infinito che bussa fragoroso alle porte e il senso di impotenza e fragilità di fronte a quel senso di infinito. Come Leopardi, quello che Guccini in “Canzone per Piero” definiva “Il mio Leopardi”. “Natura umana, or come,/se frale in tutto e vile,/Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?/Se in parte anco gentile,/Come i più degni tuoi moti e pensieri/Son così di leggeri/
Da sì basse cagioni e desti e spenti?” (G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna).
I desideri, la tensione quasi spirituale (per quanto il termine “spirituale” poco si adatti ad un gozzovigliatore accanito come Guccini), tutto ciò è “qualcosa che non resta”. Viviamo circondati da simboli, da immagini, da illusioni. E il protagonista di Incontro – il suo autore – lo sa. L’illusione è un rifugio dalla realtà ma non tiene. E i simboli crollano.
Eppure quello che resta è “quest’assurda nostalgia”. È la vedetta che grida nella notte, che domanda al vento. E qui Guccini si ferma, come Leopardi. “Una risposta non ci sarà/La risposta sull’avvenire/È in una voce che chiederà/Shomer ma mi-llailah (ossia “Vedetta, quanto resta della notte?”)” cantava in Shomer ma mi-llailah.Ma quella domanda, quel tarlo, quel desiderio di infinito ci tortura lo stesso. “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, ed il cuore di simboli pieno”. Eppure sentiamo l’infinito.