È uscito un nuovo disco di Jackson Browne. Già questa è una notizia in sé e potremmo fermarci qui. Il cantautore californiano ha diradato tantissimo le pubblicazioni in studio, negli ultimi anni; tipico di chi, avendo ormai abbondantemente passato i quaranta di carriera, può permettersi di fare quello che vuole con la gestione della propria musica. Solo due album per lui, nel primo decennio dei duemila: uno francamente da buttare (“The Naked Ride Home”), l’altro piuttosto gradevole ma nulla più (“Time the Conqueror”). È opinione di molti, neanche troppo velata, che quello che viene considerato come uno dei più grandi songwriter di tutti i tempi, abbia da tempo scaricato le batterie.
Personalmente, pur amandolo tantissimo e seguendolo da tempo, non ho mai guardato a lui come a un autore di grandi album. Grandi canzoni, certamente sì: sorvolando sul fatto che uno che ha saputo scrivere una “Take It Easy” o una “These Days” avrebbe anche potuto concludere lì la carriera, è indubbio che ogni suo disco, anche il peggiore, contenga almeno uno o due brani indimenticabili.
Ma di capolavori assoluti, per il sottoscritto, ce ne sono pochi: sicuramente “Late For the Sky” (recentemente ristampato in occasione del quarantennale dell’uscita), che ha cantato l’amore, il dolore, il senso di perdita e inadeguatezza come nessun altro; poi il disco di inediti dal vivo “Running on Empty” e il multiplatinato “The Pretender”, la cui title track può tranquillamente rientrare negli episodi più belli di tutta la storia del rock.
A maggior ragione dunque, c’è da sorprendersi per questo “Standing in the Breach”: arrivato dopo sei anni di silenzio, a pochi mesi di distanza da un album tributo che poteva anche avere l’amaro sapore del necrologio, questo nuovo lavoro dell’artista californiano riesce nell’impresa di riportarci indietro nel tempo, ad un’epoca in cui di dischi belli ne uscivano in continuazione e in cui tutto sembrava fresco, innocente e irripetibile.
La voce, innanzitutto, è quella di sempre: forse un po’ affaticata dall’età, in alcuni punti appare meno sicura; il timbro, però, è quello inconfondibile che ce lo ha fatto amare; un timbro che è ancora limpido e giovanile come il volto di questo sessantacinquenne che, a parte qualche ruga, non è poi molto diverso da quello di inizio carriera.
La partenza con “The Birds of St. Marks” sa di vecchia conoscenza: un brano che era già apparso in versione chitarra e voce nel live acustico del 2005 e che viene qui riproposto full band, una resa meravigliosa che rende pienamente giustizia a quello che già era un pezzo da novanta della sua discografia. Un ottimo biglietto da visita, non c’è che dire.
La successiva “Yeah Yeah”, che è anche il primo singolo estratto, è un brano semplice e diretto, una canzone d’amore piuttosto “leggera”, almeno nel tono generale, con un ritornello davvero coinvolgente.
La direzione del disco è a questo punto piuttosto chiara: abbandonata ogni tentazione “modernistica” negli arrangiamenti, lontano anche dalla sovrabbondanza un po’ kitsch dei suoi dischi degli eighties, Browne è tornato a quel suono rock californiano che lui stesso ha creato e che costituisce il marchio di fabbrica di tutte le sue cose migliori. Zero fronzoli, zero o quasi sovraincisioni, chitarra, basso, batteria, pianoforte che sembrano suonare tutti insieme dal vivo e che fanno cose semplici ma efficaci, totalmente al servizio delle canzoni.
Un sound fresco e senza tempo, un songwriting finalmente ispirato: i tempi di “Late For The Sky” non sono tornati ma tornano alla mente senza nostalgia, nella consapevolezza che il suo autore è ancora in grado di tirar fuori dei bei conigli dal suo cilindro.
Sono tutti molto belli, i brani di “Standing in the Breach”. Magari nessuno memorabile (anche se la title track ci va molto ma molto vicino) ma senza dubbio migliori di tutto quanto fatto negli ultimi dieci anni e forse anche prima. C’è la ballata folk “The One Way Round”, il coinvolgente country di “Leaving Winslow” (anche questa dotata di un ritornello killer), una “You Know The Night” che sembra uscita direttamente da “Running On Empty” e che è impreziosita da un testo inedito di Woody Guthrie, probabilmente uno dei tanti che ha lasciato in giro e che negli anni erano già stati utilizzati da artisti come Wilco e Dropkick Murphys.
Più scontate ma sempre gradite “If I Could Be Anywhere” e “Which Side”, due bei rock battaglieri nella piena tradizione del Jackson Browne più politico, quello di “Lives in The Balance” o “World in Motion”.
“Standin’ in the Breach” è probabilmente l’episodio migliore del disco, quello che sintetizza lo spirito che sta dietro questo lavoro: “E anche se la terra tremasse e crollassero le nostre fondamenta, ci riuniremo tutti e le costruiremo di nuovo. E accorreremo a salvare le vite di quelli che ancora possiamo raggiungere. E proveremo a rimettere insieme il nostro mondo, stando sulla breccia”.
Una dichiarazione sincera di fratellanza e dedizione, forse un po’ velleitaria ma perfettamente nelle corde di un artista che è sempre stato in prima linea sin dai tempi del famoso festival No Nukes. Ed è significativo che nella scaletta del disco compaia anche “Walls and Doors”, versione inglese di un brano del cantautore cubano Carlos Varela, che Browne ha fatto sua come non mai e che è un altro dei momenti indimenticabili di questo lavoro. “Da quando esiste il mondo una sola cosa è certa: ci sono alcuni che costruiscono muri e altri che aprono porte”. Banale, sicuramente. Ma anche possibile punto di ripartenza per cercare di rimettere in piedi un mondo che letteralmente sta cadendo a pezzi, come la città da cui fuggono i due personaggi della copertina.
Lontano dalla profondità concettuale e dall’introspezione dei suoi più grandi capolavori, ripetitivo per quanto riguarda le soluzioni compositive, Jackson Browne è comunque tornato con un disco di tutto rispetto, che ce lo restituisce in forma e più che desideroso di tornare a fare la differenza anche in quella che potrebbe facilmente essere la fase finale della sua carriera.