“Sei entrato in casa mia l’altra notte/ Non ho potuto fare a meno di notare/ Una luce che era spenta da tempo che brillava intensa/ Eri seduto, le tue dita come fusi /I tuoi occhi erano cannella”.
Iniziava così, quindici anni fa, con i versi dell’incalzante Stolen cars, “Central Reservation” di Beth Orton. Un inizio folgorante, una specie di catapulta capace di lanciare l’ascoltatore in medias res, nel bel mezzo dello svolgimento di una vicenda, in una camera probabilmente a luci soffuse e nella quale la tensione, che si fa musica grazie ai lancinanti interventi di slide dell’ospite Ben Harper. Lei, Beth, era allora una ragazza di 29 anni, dalla pelle diafana, apparentemente schiva e scontrosa e con due occhi blu intenso che lasciavano trasparire lampi di inquietudine.
Ma facciamo un passo indietro. Che la ragazza fosse inquieta ed irrequieta si era capito fin dai suoi esordi. Che fosse caparbia e artisticamente quasi anarchica anche. Aveva iniziato con un album pubblicato soltanto in Giappone – ed ora oggetto per collezionisti rintracciabile a quotazioni astronomiche – in cui mischiava John Martyn e l’elettronica, trasfigurando un’onirica I don’t know by evil attraverso beat ossessivi e incessanti. Colpa delle sue frequentazioni, certo. I suoi compagni di vita e di avventura si chiamavano William Orbit, produttore e sperimentatore di suoni sintetici già con Madonna, ed Ed Simons dei Chemical Brothers, per i quali incise la parte vocale di Alive Alone, con tanto di successo planetario e vendite multimilionarie. Le sue radici erano però altrove: gli eroi di Beth Orton si chiamavano Bert Jansch, John Martyn, Terry Callier, Tim Hardin, Leonard Cohen (non a caso qualche anno dopo chiamerà la sua prima figlia Nancy, proprio come una delle più belle canzoni del canadese).
Il suo primo disco distribuito in tutto il mondo, Trailer park, dato alle stampe alla fine del 1996, aveva confermato il suo talento e rinsaldato in un certo senso il legame con le proprie radici. Certo, l’elettronica rimaneva sempre al centro della scena, eppure le passioni musicali e l’indole da autrice di Beth si facevano qui più spazio. Tuttavia, a risentirlo oggi, Trailer park sembra un disco a due facce, non ancora pienamente a fuoco, di un’artista ancora indecisa sulla strada da prendere. Molto bello ma incompleto.
Passa qualche tempo, arrivano i primi riconoscimenti e Beth Orton comincia a pensare ad un nuovo disco. Finché accade un fatto. Al Jazz Café di Londra arriva a suonare Terry Callier, uno dei più puri e misconosciuti talenti dello scorso secolo, un artista capace di mescolare il soul, il jazz, il folk con la stessa anima eterea di un Tim Buckley. Insieme a lui la sua band, la stessa con cui avrebbe registrato – peraltro proprio al Jazz Café – pochi anni dopo il monumentale e bellissimo disco dal vivo Alive (consiglio: se non lo conoscete ascoltatelo quanto prima). Beth Orton è fra il pubblico e rimane incantata dalla voce e dalla musica di Callier. Dopo il concerto va a salutarlo e a presentarsi, estasiata. Ma non basta. Gli chiede l’indirizzo di casa sua, a Chicago, e gli manda una copia del suo cd. Fatto sta che nel mese di aprile Terry Callier torna a Londra, ancora una volta con la sua band. E stavolta è lui a chiamare Beth. “Ciao, sono in città con la mia band. Ti va di registrare qualche cosa insieme?”. Beth quasi non ci crede. “Subito!”.
I tre giorni successivi li trascorrono in studio insieme, a suonare a ruota libera. Il primo brano che registrano èThe Dolphins di Fred Neil, un brano che, chiudendo il cerchio, Tim Buckley aveva fatto proprio. La cantano a due voci, due voci che si intrecciano a meraviglia l’una con l’altra sino a diventare una sola, mentre sottili colpi di vibrafono e le chitarre acustiche cesellano la melodia. Poi passano ad una canzone di Terry, la bellissima Lean on me. E qui è Beth a cantare la voce principale, con Callier che nel ritornello si inventa un controcanto da brividi, apparentemente dissonante ma maestoso. Ed è qui che la Orton dice a Callier: “Ho scritto una canzone nuova. La cantiamo insieme?”. Callier non l’ha mai ascoltata ma acconsente.
“One two three, two two three”, la Orton scandisce il tempo e la band parte sinuosa. Un colpo al cuore. “Tante cose restano sconosciute sin quando viene il loro tempo. Potevi immaginarti che saresti stato così forte e poi che saresti stato a guardare le tue paure che diventano il tuo conforto? Il tuo mare di dubbi che diventa l’unica certezza? Anche se le lacrime non vengono per pianger via il dolore, le lacrime ti aiuteranno a capire veramente di cos’hai bisogno”. La canzone si chiama Pass in time ed è la dedica commossa di Beth alla madre, morta per un male incurabile poco tempo prima. Anzi, sono le parole La tensione in studio è palpabile. La canzone poi sfocia nel ritornello: “Forza, forza, bimba. Sei qui solo di passaggio. Forza, forza, bimba, sei qui solo di passaggio. Dovresti sorridere perché non sai cosa sarà domani e tutto col tempo si sfuma”. Terry Callier fa i controcanti nel ritornello e poi duetta con Beth nella magnifica coda finale. Sette minuti e più di musica che sembra provenire da un’altra dimensione.
Finite le registrazioni, la Orton decide di pubblicare The Dolphins e Lean on me in un EP, che si chiamerà Best Bit, completandolo con due proprie canzoni inedite e una traccia dal vivo. Pass in time, invece, è la prima pietra del suo nuovo album.
Ma gli incontri non finiscono qui. Beth e la band sono in studio a registrare alcune canzoni. In particolare stanno provando Sweetest decline: “Che cosa sono i rimpianti? Soltanto lezioni che non abbiamo ancora imparato. E’ come provare a prendere un fiocco di neve con la lingua.
Non riuscirai ad inchiodare questa farfalla a terra”. Dalla sala di registrazione affianco viene fuori Dr. John. “Ehi, ho sentito la tua canzone! È bellissima. Posso suonarci qualche linea di pianoforte?”. Ed ecco anche prontaSweetest decline, che le dolcissime frasi di piano rendono ancora più malinconica e piena di soul, il brano piùsoulful che un’artista inglese innamorata del folk abbia mai registrato. E poi, ancora, l’amico Ben Harper che presta la sua slide per l’iniziale Stolen car, l’unico brano dalle atmosfere rock del nuovo disco, paradossalmente messa proprio all’inizio, quasi a confondere l’ascoltatore, e per un altra meravigliosa e tersa ballata, Love like laughter.
È nato Central Reservation, uno dei dischi più intensi degli ultimi vent’anni almeno. Ma non è solo per i meriti degli ospiti, anzi. Sono le canzoni di Beth Orton a rubare la scena a tutto e a tutti. Canzoni malinconiche e sofferte ma mai disperate, vissute, cantate con il cuore in mano e come se fosse l’ultima cosa da fare prima della fine dei tempi. La Orton pare una versione moderna, più riflessiva e meno autodistruttiva, di Sandy Denny con un pizzico di Tim Hardin. L’elettronica che caratterizzava i dischi precedenti non è sparita del tutto ma è usata con garbo, centellinata, funzionale alla struttura delle canzoni, come Couldn’t cause me harm, Stars all seem to weep (l’episodio più vicino al passato). Pochi strumenti, alcuni pezzi quasi interamente acustici (Blood red river e Devil’s song, le due canzoni più scure del lotto). In chiusura, un autentico inno alla speranza, alla speranza esistenziale: Feel to believe. Registrato quasi come un provino, scarno, chitarra e voce, in Feel to believe la Orton canta “Ora è il momento giusto, ora è il tempo, ora è il nostro turno di scoprire”. Si chiude il cerchio, tutto è compiuto, la bellezza di Central Reservation ha toccato il suo culmine e si è svelata completamente.
È nato Central Reservation, uno dei dischi più intensi degli ultimi vent’anni almeno. Ma non è solo per i meriti degli ospiti, anzi. Sono le canzoni di Beth Orton a rubare la scena a tutto e a tutti. Canzoni malinconiche e sofferte ma mai disperate, vissute, cantate con il cuore in mano e come se fosse l’ultima cosa da fare prima della fine dei tempi. La Orton pare una versione moderna, più riflessiva e meno autodistruttiva, di Sandy Denny con un pizzico di Tim Hardin. L’elettronica che caratterizzava i dischi precedenti non è sparita del tutto ma è usata con garbo, centellinata, funzionale alla struttura delle canzoni, come Couldn’t cause me harm, Stars all seem to weep (l’episodio più vicino al passato). Pochi strumenti, alcuni pezzi quasi interamente acustici (Blood red river e Devil’s song, le due canzoni più scure del lotto). In chiusura, un autentico inno alla speranza, alla speranza esistenziale: Feel to believe. Registrato quasi come un provino, scarno, chitarra e voce, in Feel to believe la Orton canta “Ora è il momento giusto, ora è il tempo, ora è il nostro turno di scoprire”. Si chiude il cerchio, tutto è compiuto, la bellezza di Central Reservation ha toccato il suo culmine e si è svelata completamente.
Ora, a quindici anni dalla sua prima uscita, Central Reservation viene ristampato nella solita edizione di lusso, con un cd aggiunto, nel quale sono raccolti otto brani eseguiti dal vivo in duo acustico, qualche lato B dei singoli del tempo (di cui un paio di remix in chiave elettronica) e una manciata di demo. Certo, non c’è nulla di assolutamente imperdibile (forse solo la b-side I love how you love me presa in prestito a Phil Spector ed alle Paris Sisters), per quanto le otto canzoni dal vivo mostrino un’interprete notevole e, soprattutto, che spogliate delle loro vesti di studio, in versione scarna ed acustica, non perdono un grammo della loro originaria intensità. Certo, la ristampa non sarà indispensabile ma ha un gran merito: riportare l’attenzione su un disco meraviglioso. Perché Central Reservation È un disco meraviglioso, non c’è dubbio. E proprio come le donne più belle, quelle dai tratti più fini e più semplici, quindici anni in più sulla pelle forse toglieranno la freschezza della prima giovinezza ma regalano la bellezza della maturità, una bellezza forse ancor più affascinante.