Un’intervista a Sergio Cammariere è un’immersione. Sergio parla di tutto, di musica, di filosofia, ogni tanto perde il filo del discorso e poi lo riprende dopo diversi minuti. Ma ama la musica, questo è sicuro, e parlare con lui non fa altro effetto se non quello di un’immersione nel mondo musicale, a trecentosessanta gradi. Si può passare dal Brasile a Bruno Lauzi: gli schemi non sono importanti. Ciò che è importante è la comunicazione di emozioni e  sentimenti che la musica può dare. Con lui abbiamo parlato soprattutto del suo nuovo album, Mano nella mano, uscito da poche settimane e in cui Cammariere ripropone il suo mondo musicale, fra jazz, musica latina e mille influenze assimilate qua e là in giro per il mondo.

Il nuovo disco è pieno zeppo di suoni figli della musica di tutto il mondo. In particolare ci ho sentito molti rimandi alla musica del Brasile. Da dove vengono queste influenze?

Arrivano principalmente dai miei viaggi e dai luoghi che ho visitato e in cui mi sono fermato. Verso la fine degli anni Ottanta sono stato a suonare a Rio per diverso tempo. Ricordo che suonavo in un locale che si chiamava “Il Teatro”, proprio in Rua Garota de Ipanema, dove ho avuto modo di condividere il palco con personaggi del calibro di Carlos Lyra o Leny Andrade, che a quel tempo proponeva dal vivo le canzoni di Cartola, leggendario autore della musica brasiliana arrivato al successo a più di sessant’anni. Ancora, nei miei dischi precedenti ho avuto la fortuna di coinvolgere artisti come il batterista Jorginho Gomes o il bassista Arthur Maio o ancora il grandissimo autore Ivan Lins. Ma un incontro ancor più importante per la mia formazione è stato quello con Sergio Bardotti (l’uomo che insieme a Sergio Endrigo ha portato in Italia la musica di Vinicius de Moraes, traducendone numerosissimi testi. N.d.R.), incontrato all’inizio degli anni Novanta al premio Tenco. Addirittura, Bardotti mi chiedeva le cassette con le mie canzoni che poi mandava ad artisti come Chico Buarque de Hollanda. Addirittura, Chico Buarque mi mandò dal Brasile una cartolina di incoraggiamento per il mio lavoro. La mia passione parallela per il cinema mi aveva portato a realizzare nel 2008 un corto dedicato proprio a Sergio Bardotti, intitolato “La domenica delle palle”, che abbiamo proiettato al Premio Tenco di quell’anno. 

Ma è tutta la musica brasiliana ad essere presente nella mia formazione: d’altra parte in Tom Jobim ci sono gli archetipi di tutta la musica pop del secolo scorso. È uno dei grandi, ai livelli di Gerswhin o Bacharach.

L’influenza di Tom Jobim è evidente anche in altre due canzoni, Ancora non mi stanco e L’amore trovato, che ricorda un po’ come costruzione Aguas de março.

Certo, l’influenza di Jobim qui è evidente. D’altronde, le influenze erano già evidenti in L’amore non si spiega, il brano che presentai a Sanremo nel 2008 e nel quale duettai con Gal Costa. Ma d’altronde quello con la bossa nova, per noi italiani, è un rapporto strano. Quando feci sapere a Pippo Baudo, uno dei miei mentori, che avrei proposto per Sanremo un brano di quel genere, lui fu abbastanza in disaccordo, ritenendo che in Italia non potesse funzionare, memore anche delle incomprensioni del pubblico italiano nei confronti di personaggi come Gilberto Gil a fine anni Sessanta. Io però mi impuntai: desideravo proporre un brano di bossa nova proprio in quanto fuori dagli schemi canonici della musica popolare italiana. Tutti quegli accordi diminuiti o di settima aumentata…roba a cui le orecchie dell’ascoltatore medio non sono affatto abituate! Eppure, col senno di poi, posso dire di avere avuto ragione. Ed anche in questo nuovo album ho cercato di riproporre quegli stessi schemi compositivi. A livello compositivo, Ancora non mi stanco e L’amore trovato hanno una genesi differente. Per Ancora non mi stanco avevo composto la musica e sulla musica Roberto Kunstler ha costruito il testo, mentre invece per L’amore trovato mi sono basato su una poesia che Kunstler aveva già scritto e che, di fatto, ha poi influenzato la costruzione musicale, anche a livello di atmosfere.

A proposito di questo: i tuoi testi sono scritti interamente da Roberto Kunstler. Qual è il modo in cui lavorate assieme?

Bé, io sono un cantautore atipico ma non sono l’unico. Mi vengono in mente tante coppie di cantautore/musicista che si appoggia ad un paroliere: Mogol e Battisti, Gaber e Luporini, Cocciante e Luberti e via dicendo. Il mio mezzo espressivo è la musica e lo è sempre stato. L’incontro con Kunstler fu cruciale. A un certo punto della mia carriera entrai alla IT, la storica casa discografica di Vincenzo Micocci, personaggio fondamentale per la mia formazione (la IT, peraltro, era la casa discografica per cui, fra gli altri, incideva Rino Gaetano, che di Sergio Cammariere era cugino. N.d.R.). A quel tempo facevo la gavetta: tanto piano bar, varietà televisivi e così via. Anche Kunstler frequentava la “scuola” di Micocci. In pratica abbiamo fatto una “scuola di cantautorato” insieme, che ha portato nel 1992 al disco, ormai introvabile, “Cammariere/Kunstler”. Roberto per me fu un incontro folgorante: cominciammo a scrivere canzoni al volo. Poi abbiamo affinato il nostro modo di lavorare. Lavoriamo sempre a stretto contatto: il nostro è un vero e proprio lavoro di squadra. A volte si parte da un verso buttato là, a volte da una frase di piano. Da lì poi viene il resto.

 

Il brano di lancio del disco, Ed ora, si distacca abbastanza chiaramente dal resto della tua produzione. Ce lo racconti?

 

L’attacco di Ed ora nasce da un appoggio di basso tribale della zona del Sahara ed è un vero e proprio canto di libertà. È una composizione che esce dai miei schemi canonici, basata su pochissimi accordi e senza grandi digressioni armoniche. Per la prima volta ho voluto inserire dei cori, poi il mio amico Gegé Telesforo ha sovrainciso, in una take sola, senza editing successivi, la sua parte vocale a metà strada fra lo scat ed il rap. La struttura era molto semplice e l’abbiamo registrata così, al volo. Avevamo impostato un ritmo su una tastiera e ci abbiamo suonato sopra: se si ascolta bene il brano, sotto le percussioni di Paulo La Rosa e la batteria di Marcello Surace, si sente impercettibilmente il suono di quella tastiera che andava da sola facendoci da base. Non l’abbiamo tolta perché abbiamo voluto mantenere la registrazione così com’era, con la freschezza di una registrazione dal vivo. In molti, sentendola, hanno pensato che fosse una canzone troppo fuori dai miei standard. Io invece ho voluto rischiare, costruendo un brano così, poggiato praticamente su un solo accordo. Il mio tentativo era quello di creare un pezzo che esprimesse nient’altro che gratitudine, un inno alla pace ed alla vita, un segnale di speranza in un momento storico in cui tutto è contrassegnato dal pessimismo, che i media amplificano quotidianamente. D’altronde io vedo la musica come Madre. La musica non è nient’altro che Dio. È uno dei pochi linguaggi non mediati dalla realtà.

 

In effetti, Ed ora è un’eccezione, in un disco dominato da una certa complessità nella composizione…

 

La complessità dei miei brani è di per sé una sfida per l’ascoltatore. L’orecchio umano è un qualcosa che ha bisogno di evolversi. Siamo circondati da linguaggi musicali che tendono alla semplificazione quando non alla banalizzazione. Io invece cerco di portare oltre il discorso, al di là delle consuetudini. D’altronde le mie influenze sono decisamente poliedriche: vi coesistono Mahler, Beethoven (che per me è la massima espressione della musica di ogni tempo) insieme al pop, al jazz, al blues. E comunque, le mie composizioni non sono mai qualcosa di statico: sono in continua evoluzione, nelle loro esecuzioni dal vivo. E questa continua evoluzione è possibile grazie ai fantastici musicisti con cui suono, a Fabrizio Bosso, a Bruno Marcozzi e a tutti gli altri che mi accompagnano ormai da anni.

 

Parliamo ora di Mano nella mano, il pezzo che apre l’album. Mi sembra di ascoltare quasi una milonga…

 

Mano nella mano l’ho costruita sentendoci dentro il ritmo di Marrakesh ed i ritmi della musica andalusa che, in un certo senso ricordano ritmi lontani geograficamente come appunto la Milonga, che ha la stessa struttura in 6/8. Nel periodo in cui l’ho composta, stavo preparando la colonna sonora del film Maldamore e ho cominciato a registrare una serie di “tanghi andalusi” e così, lavorando su quelle basi, è venuta fuori questa specie di milonga arabo-gitana. Ti confesso che per questa canzone mi sono fortemente ispirato anche ad una canzone di Joan Manuel Serrat, grandissimo musicista catalano, intitolata Mediterraneo, che ha lo stesso andamento di Mano nella mano, gli stessi battimani in controtempo.

 

Un altro pezzo significativo del disco è a mio parere Le incertezze di marzo, aperto dalla splendida tromba di Fabrizio Bosso.

 

È un brano basato su una struttura modale, un brano profondamente jazz. Abbiamo prestato molta attenzione alla registrazione, specie alla registrazione delle percussioni, nella quale abbiamo fatto molta attenzione alla gestione delle frequenze acute, dando al suono della batteria degli accenti paradossalmente poco jazz, più vicino a certo progressive-rock degli anni Settanta.

 

Sempre a proposito di Le incertezze di marzo, il testo è stato scritto da un personaggio apparentemente lontanissimo dal tuo mondo, ossia da Giulio Casale (leader degli Estra, una delle migliori band di rock italiano alternativo degli anni Novanta). Ci racconti quest’incontro?

 

Con Giulio avevamo collaborato già in passato per il mio album “Sergio Cammariere” del 2012. Stavolta è successo che Giulio mi ha mandato via mail un paio di versi. Io ne ho colto l’atmosfera e ho cominciato a scrivere la musica, dopodiché lui ha completato il testo. Io e Giulio siamo apparentemente lontani come formazione musicale ma io in fondo ho un’anima rock. I primi pezzi che ho imparato maniacalmente a suonare al pianoforte erano i pezzi dei Genesis (si mette a improvvisare al pianoforte l’introduzione  di Firth of fifth, spiegandomene la struttura e facendo una digressione sulla numerologia applicata alla musica. N.d.R.). Ma d’altronde, come diceva Vinicius de Moraes, “la vita è l’arte dell’incontro”: bisogna ascoltare, bisogna incontrare il prossimo, scambiarsi le esperienze. Questo disco è basato tutto su incontri, quello con Giulio, quello con il chitarrista Roberto Taufic, che ha caratterizzato il suono di tutto l’album, completando armonicamente la gamma degli accordi del pianoforte, quello con Antonello Salis, che per me il Joe Zawinul della fisarmonica. Con lui abbiamo scritto Pangea, il brano strumentale che chiude l’album e che idealmente forma una specie di cerchio che si chiude e che riparte, anche a livello di costruzione armonica: Pangea si chiude in RE maggiore e, se fai ripartire da capo l’album, l’accordo di RE maggiore della conclusione di Pangea è poi proseguito idealmente dal primo accordo della prima traccia, Mano nella mano, che è un MI minore. Ecco, volevamo dare questo senso di continuità a quest’album e dare l’idea di un percorso che non finisce con l’ultima nota ma ricomincia in eterno.