Il Teatro dell’Opera di Roma, i cui problemi finanziari e sindacali sono da settimane sulle cronache, ha preso una decisione coraggiosa. Dopo l’addio di Muti, la stagione verrà inaugurata con una nuova produzione di Rusalka di Antonin Dvorák, una fiaba musicale in tre atti, su libretto di Jaroslav Kvapil,che fu rappresentata per la prima volta a Praga il 31 marzo del 1901. La protagonista è uno spirito dell’acqua e la sua storia è tratta dalla mitologia slava, dalla leggenda di Melusine e dalla famosa Sirenetta di Hans C. Andersen.
E’ una decisione importante sia perché è stata presa speditamente, riportando in Italia un grande regista (Denis Krief), sia perché Rusalka è perfetta per una inaugurazione poiché iniziando alle 19 consente l’organizzazione di cene ed incontri. Lo è soprattutto perché agli italiani non sono mai piaciute le fiabe in musica ed è bene che si accostino ad una delle migliori.
Il Teatro dell’Opera, a questo riguardo, ha il merito di avere non solo presentato un paio di produzioni (importate) di Rusalka e di avere programmato le rare opere fantastiche in repertorio (quali il mozartiano Zauberflote) ma anche di avere proposto alcuni anni fa quel gioiello che è La Leggenda di Sakuntala di Franco Alfano.
In effetti, l’opera fantastica ha avuto raramente casa in Italia. Un periodo fu il barocco, ma gran parte del repertorio italiano di quel periodo è sparito nel periodo tra fine Ottocento ed inizio Novecento. Erano gli anni in cui si considerava superato – oggi si direbbe , in tono molto meno elegante, rottamato – il melodramma verdiano, nonostante il Maestro con pochi ma ben assestati colpi di coda (Otello e Falstaff) avrebbe dimostrato di essere ancora il più moderno di tutti, e si era alla ricerca di una nuova strada. Chi, come Arrigo Boito, cercava una trasposizione italiana degli stilemi wagneriani. Chi, invece, come la più parte dei compositori che ruotavano su Milano, abbracciava forme di grand opéra, dimenticando quasi che il caposcuola Meyerbeer era morto nel 1864 e le sue sei principali opere venivano raramente rappresentate perché richiedevano risorse di cui i teatri italiani non disponevano con il risultato che le produzioni, in traduzione ritmica, contenevano forti tagli.
In cosa consisteva il genere (che ebbe notevole successo per oltre tre lustri)? Si era in uno dei rari periodi in cui la “musa bizzarra ed altera” (ossia la lirica) era, in Italia, puramente commerciale con guerre tra editori (e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che attirassero un pubblico sempre più borghese.
Nella padania (ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento La Scala e il Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava elementi dal grand-opéra francese (allora ormai superato) e dal wagnerismo (che dopo la prima italiana del Lohengrin nella città felsinea influiva anche sui compositori che si opponevano alle sue teorie sulla ‘musica dell’avvenire’).
Il grand-opéra padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati in terre lontane (vediamo alcuni titoli: I Lituani di Ponchielli , Guarany di Gomes, Ruy Blas di Marchetti, I Goti di Gobatti) che consentivano di coniugare ballo con canto e davano la stura a “effetti speciali” (incendi, battaglie, crolli di castelli e palazzi); si completava il superamento nei “numeri chiusi” privilegiando tableaux con sinfonismo continuo. A questi due elementi – il primo d’origine francese, il secondo d’ispirazione wagneriana – si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in via di diventare umbertina e in cui la borghesia padana aveva la consapevolezza di responsabilità e doveri speciali nell’amalgamare le culture degli staterelli su cui si costruivano le ambizioni di un nuovo Stato proteso ad entrare nel novero delle Grandi Potenze (per utilizzare il lessico dell’epoca). Ci sono stati tentativi recenti di riproposta, ma senza grandi esiti: in effetti unicamente La Gioconda di Ponchielli è ancora in repertorio.
Un altro filone fu l’’opera fantastica’. Affascinò – si è ricordato – Alfano. Anche Mascagni e Puccini ne furono attratti, anche se le ‘opere fantastiche’ del primo si mettono in scena di rado e quella del secondo (Turandot) , a differenza del lavoro di Ferruccio Busoni con lo stesso titolo, è quasi grand opéra padano carico, però, di innovazione.
Molti hanno dimenticato Alfredo Catalani che ebbe vita breve e compose poche opere (sei) in gran misura del genere ‘fantastico’ tardo romantico. E’ un oblio italiano poiché grazie ad un film giallo francese del 1981 (il tema di fondo era come indurre una famosa cantante a registrare l’aria Ebben ne andrò lontana de La Wally), almeno La Wally e Loreley sono tornate ad essere programmate non solo in Francia ed in Germania ma anche negli Stati Uniti; in effetti, nei Paesi dell’Europa centrale e orientale dove ‘l’opera fantastica’ è sempre andata alla grande, sono sempre state rappresentate. Ho il ricordo di qualche recita in Italia negli Anni Cinquanta, quando, da bambino, andavo, o meglio venivo portato, ad opere fantastiche. Catalani è stato del tutto (o quasi) ignorato nel centenario della morte nel 1993 e nel cento cinquantenario della nascita nel 2004.
Quindi, meritano un elogio Paolo Petronio e Zecchini Editore che presentano quello che considero la prima monografia completa sul compositore (P. Petronio Catalani , Varese, Zecchini Editore 2014 €25), un volume di 540 pagine con attenta analisi storica e musicale nonché una proposta di catalogazione critica. Prima di Patronio, unicamente Michelangelo Zurletti aveva affrontato il tema in un saggio del 1982, molto essenziale e peraltro da anni fuori catalogo.
La lettura del libro di Petronio è di grande utilità non solo a chi vuole avvicinarsi a Catalani, ma a tutti coloro che vogliono comprendere il panorama musicale italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento. Nonché per coloro che andranno ad ascoltare Rusalka. Ascoltando la registrazione della Decca con Sir Charles Mackerras sul podio e Renée Fleming come protagonista.