La bellezza dispensata dall’album “Torno a Casa a Piedi” in un 2011 non avaro di magie da parte del gentil sesso del cantautorato italiano, era stata tale da rappresentare per Cristina Donà un momento distintivo, unico e irripetibile. Un disco dove le cose funzionavano come e più di un meccanismo perfetto, in cui l’alchimia messa in circolo dall’autrice pareva essere stata visitata dal sorriso di Dio tanta era la potenza e la magia sprigionata da musica, parole, pause, ripartenze e soluzioni.
Era uno di quei momenti più unici che rari dove era possibile scorgere in tempo reale all’interno di un impasto musicale l’armonia combinata di più coesistenze artistiche. Scrittura e voce della nostra, band e sezioni ospiti sembravano letteralmente passarsi il testimone e giocare su una nuvola.
Prendersi la responsabilità (o la voglia) di dare un seguito a qualcosa di proprio già leggibile nei termini di una consistente eredità artistica non deve essere stato un passo facile. E se il prodotto finito – il nuovo album “Così Vicini” – sembra dar ragione di una distanza coperta con una certa abilità, qualche piccolo condizionamento anche inconscio, deve aver lasciato il segno.
Quello che la cantautrice rhodense ci offre è ad ogni buon conto qualcosa di degno e meritevole di attenzione, quello che dopo l’attraversamento di svariate tendenze e stagioni artistiche può essere a buon diritto designato come il lavoro della songwriting di consumato mestiere nell’accezione più genuina e ispirata del termine.
Tornata ad agire di etichetta propria (nonostante il successo raggiunto con l’ultimo album uscito per la EMI), con la complicità sempre provvidenziale del coautore-produttore-polistrumentista Saverio Lanza oltre alla presenza di collaboratori ricorrenti come i sessionmen Monterisi, Calcagnile e Morganti, la nostra confeziona l’album numero otto che, forte o debole di questo numero, cerca di serrare le fila di un excursus artistico in un lasso temporale che si avvia a sfiorare i vent’anni.
Dolcezza, virate rock e debite riappropriazioni di certe asprezze di sapore alternativo – in un ideale svincolo tra “Nido” e “La Quinta Stagione” – si susseguono senza soluzione di continuità. E se in apertura l’ammiccante e flautata melodia dell’omonima Così vicini guarda al Battisti delle grandi melodie d’autore dello scorcio ’71-72, “Il senso delle cose” segna già un deciso cambio di direzione con una cavalcata di grande impatto in cui la chitarra elettrica di Lanza disegna larghe ad ampie traiettorie dove si inseguono tardi sixties, Brill Building e richiami western.
Una canzone di grande incisività che rappresenta forse il passaggio più interessante all’interno della tematica affrontata dalle liriche. L’itinerario quotidiano di riavvicinamento con l’altra metà tra alti e bassi, l’inseguimento lungo un’esistenza viene qui ben riassunto nelle chiose dell’inciso. Le persone, le cose e in mezzo il gioco del destino che marca stretto. Il possibile punto d’appiglio nel silenzioso e furtivo incrociarsi di sguardi che gridano più delle parole stesse.
Non una suite ma una sorta di compenetrazione tematico-sonora è rappresentata dal terzetto Il tuo nome, Corri da me e Siamo vivi. Il candore quasi straniante della prima lascia il passo alle altre due dove si riaffacciano ruvidezze sonore tipiche del primo periodo il tutto per un esperimento interessante e degno di una migliore e più registrata definizione nel tempo a venire.
Perpendicolare dal canto suo disegna il campo sonoro in una ballata che è un’ipnotica e quasi ieratica essenza di mantra dando ragione di una sicurezza sempre più acquisita nel giostrare e proprio piacimento riferimenti musicali e ferri del mestiere, così come la risoluzione di pianoforte de L’imprevedibile si lascia ammirare per la sua abilità nel risolvere le insidie di un incombente deja vu.
L’infinito nella testa è il terzo momento di particolare rilievo nel disco. Al di là o attraverso il senso di forte partecipazione e visione insito nel titolo e nelle liriche, l’autrice-interprete regala un altro piccolo incanto forte del passaggio tra l’ipnotica melodia del refrain e la variazione lisergica di ascendenza beatlesiana.
In chiusura La fame (di te) gioca da intermezzo per il bell’epilogo di una lenta e contemplativa Senza parole. C’è un momento dove la frenesia dei gesti e dei pensieri si ferma e si ricompone davanti allo stupore per qualcuno che ha l’effetto insostituibile di una sorpresa ieri come oggi? Sì, e ora come allora ci si ferma davanti alla soglia dell’altro in un silenzio che è come un ringraziamento. Arpeggi minimali e soffici di chitarra, il canto tenero e sottile e un penetrante sfumare di archi fanno il resto.