Gli Abiku sono in quattro (cinque, se si conta il chitarrista entrato in pianta stabile per i concerti), vengono da Grosseto e sono una delle realtà più affascinanti del panorama cosiddetto indie rock (o indie pop, a seconda di quale lato si voglia considerare). A fine 2011 hanno pubblicato un disco, “Technicolor”, che li faceva rappresentanti italici di quella scena shoegaze con cui Stati Uniti e Gran Bretagna sono decisamente più famigliari.
Poi, circa un mesetto fa, la svolta de “La vita segreta”: certe suggestioni anglosassoni rimangono ancora ma si sono fuse con quel cantautorato anni ’70 di cui il cantante e compositore principale Giacomo Amaddii Barbagli è da sempre un grande fan. Il risultato è, senza timore di esagerare, un capolavoro. “La vita segreta” va a collocarsi di prepotenza tra le cose migliori uscite quest’anno nel nostro paese e, col passare del tempo, potrebbe anche essere in grado di prendersi più spazio.
A fine ottobre il disco è stato presentato a Milano, nell’ormai consueta cornice dell’Ohibò. Occasione privilegiata per testate dal vivo la resa del gruppo e, già che c’eravamo, scambiare quattro chiacchiere con loro, giusto per capire come abbiano fatto a realizzare un disco così bello.
“Direi che abbiamo semplicemente rigirato a nostro favore una difficoltà che abbiamo vivendo a Grosseto – dice Giacomo – un posto molto fuori dalle rotte normali. Non ci sono studi od etichette discografiche, per cui ci siamo presi tutto il tempo, abbiamo lavorato senza furia.” Siamo seduti in una saletta del locale, gli Abiku hanno da poco terminato il soundcheck, hanno rilasciato un’intervista televisiva e si stanno finalmente concedendo del tempo per cenare. In quasi perfetta tranquillità, aggiungeremmo, visto che hanno pure trovato il tempo per rispondere alle nostre domande.
“La gestazione è stata molto lunga – aggiunge Stefano Campagna, il batterista – abbiamo registrato circa 20 pezzi e poi li abbiamo scremati per tentare di ottimizzare il tutto. Ci è successo anche di scartare pezzi che ci sembravano importanti all’inizio ma che poi, osservando il quadro generale, ci sono sembrati fuori posto, meno adatti.”
“Per quanto riguarda la scrittura – riprende Giacomo – nel momento in cui ho iniziato a pensare ai pezzi, mi è venuto in mente da subito il titolo “La vita segreta”: non si tratta di concept album in senso stretto, bensì di inseguire questo concetto e di spiegarlo attraverso le canzoni, dando una sorta di continuità tematica al lavoro.”
Da ultimo – si inserisce Edoardo Lenzi, il tastierista – io potrei aggiungere che “Technicolor”, il nostro primo disco, è stato fatto interamente da noi ma eravamo ancora piuttosto inesperti. Questa volta ci siamo trovati più pronti, più cresciuti e dunque la conseguenza è stata che abbiamo curato maggiormente ogni singolo dettaglio.”
A questo punto faccio notare che, al di là di un lavoro di produzione eccellente, il punto forte di questo disco è che ci sono le canzoni. Canzoni che, sebbene possano funzionare tranquillamente anche in versione acustica, vantano un lavoro di arrangiamento di altissima qualità e per niente banale, che le distingue l’una dalle altre e le fa assumere quel gusto “internazionale” che va a sposarsi perfettamente con la dimensione cantautorale a cui comunque la band è da sempre legata. Viene a questo punto spontanea la domanda: è meglio avere delle belle canzoni o dei belli arrangiamenti?
Si mettono a ridere divertiti. Poi tocca a Giacomo spiegare: “Ridevamo perché adesso ti daremo risposte totalmente diverse, visto che quello di scrivere è principalmente il mio lavoro mentre Edoardo si occupa del secondo aspetto. Io registro sempre un provino per chitarra e voce di ogni pezzo, prima di portarlo alla band per iniziare a lavorarci su. E penso che, quando un brano funziona in quella veste, è poi davvero difficile lavorarci sopra senza rovinarlo.”
“Beh, ad esempio mentre salivamo da Bologna – interviene Edoardo – si parlava del disco di un gruppo che conosciamo bene, e di cui quindi non ti farò il nome, che secondo me è prodotto benissimo, con anche un lavoro di arrangiamenti davvero valido. Ecco, i pezzi però non sono granchè…”
“Appunto, vedi? – lo interrompe Giacomo ridendo – secondo me invece almeno due o tre sono veramente ottimi. In realtà su questa cosa ci siamo molto accapigliati, prima. Ma proprio perché, all’interno del gruppo, svolgiamo due funzioni diverse.”
Prende la parola Virna, che suona il basso e che finora era rimasta in silenzio a mangiare: “Un obiettivo che ci siamo dati è stato quello di fare in modo che il disco contenesse pezzi che funzionassero sia in versione scarna, sia con degli arrangiamenti specifici. Questa è una caratteristica che, a nostro parere, è un po’ carente nei gruppi di oggi; magari sono molto bravi a suonare ma poi non hanno canzoni efficaci.”
“Direi che anche per me sono più importanti le canzoni – aggiunge Stefano – ma poi, ovviamente, un buon arrangiamento fa la differenza. Però, è un’altra cosa da considerare, per un buon arrangiamento puoi rivolgerti ad un esterno: paghi e quello ti fa il lavoro che tu non sei in grado di fare. Al contrario, se non hai delle belle canzoni… sì certo, potresti farti scrivere anche quelle, però a quel punto dove va a finire l’idea della band? E comunque noi non abbiamo voluto utilizzare un produttore esterno: per quanto bravo uno possa essere, magari non avrebbe la sensibilità di Edo, che vede i pezzi nascere dall’interno e conosce le alchimie in seno alla band.”
Sembra arrivato il momento di parlare del concept che sta dietro ai testi e a un titolo come “La vita segreta”. È ovviamente Giacomo a rispondere, visto che è lui che si occupa della scrittura: “L’idea è quella di descrivere tutta quella serie di meccanismi che regolano il nostro interagire, quei meccanismi che non riveliamo agli altri. Nell’approccio ai testi ho cercato, nel mio piccolo, di utilizzare una tecnica che è molto usata anche da uno come Neil Young, vale a dire lo scrivere senza filtri, mettendo dentro anche cose molto personali della mia vita, cose per certi versi anche imbarazzanti. Ho voluto parlare di questioni che fanno parte della mia storia e che un po’ mi vergogna esternare. Una sincerità totale, quasi esagerata. È anche vero però che, se inserite all’interno di questo fluire di scrittura, tutte queste cose risultano più tollerabili, sono in un certo senso mascherate e imbarazzano di meno.”
Gli Abiku hanno firmato per la Sherpa Records, una piccola etichetta appena nata, guidata da ragazzi in gamba e appassionati, già attivi da diversi anni come agenzia di booking, con il nome de “Il cielo sotto Milano”. Che in un periodo di crisi come questo, dove i dischi non si comprano più ma si scaricano un mp3 alla volta e poi si lasciano ad ammuffire nell’hard disk, è già di per se un miracolo che della gente (peraltro appartenente alle nuove generazioni), abbia voglia di investire tempo e denaro nella musica suonata e registrata: “In un momento di crisi c’è sempre voglia di rinascita – mi dice Edoardo – e questo costituisce sempre una spinta per fare le cose, per portare avanti dei progetti. Con Marco Masoli e i ragazzi della Sherpa ci conoscevamo da un po’ di anni, e credo che aver firmato con loro sia una diretta conseguenza di questo. Abbiamo cominciato a lavorare insieme quando ancora facevano solo booking, ci hanno organizzato le date del tour di “Technicolor” e poi, quando ci hanno parlato di questo loro progetto, siccome ci eravamo trovati molto bene, abbiamo accettato. E poi Marco è il nostro primo fan, questa è una cosa importante. Nel processo di realizzazione del disco sono stati molto presenti, per cui si può dire che abbiamo partecipato insieme della cosa. Non sono mai stati invadenti ma hanno saputo essere decisi quando serviva: ad esempio, ci hanno dato delle scadenze…”
“Certo! – interrompe Stefano, tra le risate generali – altrimenti tu avresti voluto ritoccare i mix per l’ennesima volta!”
Rimanendo sullo stesso discorso, mi verrebbe ora da chiedere perché, in un periodo in cui esce un sacco di buona musica ma sembra ci sia una diseducazione totale all’ascolto, in un periodo in cui tutti scaricano e nessuno ascolta nulla… perché uno dovrebbe venire a vedere un gruppo come il loro e comprare pure il cd originale, dopo il concerto. “Beh – dice sempre Giacomo – è un disco totalmente nostro, personale. Non ci basiamo su schemi prefissati, non ci siamo costruiti ad arte una formula per arrivare al successo. Occorre entrare dentro la nostra musica per apprezzarla davvero perché abbiamo una sensibilità particolare, non siamo per forza di cose una band che segue le mode. Non mi aspettavo certo che fosse giudicato un lavoro immediato. In realtà a noi sembra un disco semplice ma è solo perché lo conosciamo molto bene; ogni persona che lo ascolta lo recepisce in una maniera diversa.”
“Io – incalza Edoardo – non ho certo l’illusione che chiunque lo ascolti rimanga colpito. Anche perché è vero quello che dicevi: oggi ascoltare musica non è da tutti, proprio perché è facile avere un ascolto distratto. C’è sempre il rischio che uno compri un disco perché vuole sentire solo quelle due canzoni, oppure si ferma a quelle che vede pubblicate sul profilo Facebook dell’amico.”
Anche per quanto riguarda le influenze alla base della loro musica, gli Abiku sono una band interessante: si percepisce chiaramente il loro amore per i cantautori italiani degli anni Sessanta e Settanta, da De Gregori, a Dalla, a Luigi Tenco; allo stesso tempo però, nel loro suono c’è molto di più, si sentono un sacco di cose diverse che, proprio perché perfettamente amalgamate tra loro, non è facile individuare.
“Questa cosa del suono amalgamato – mi dice Giacomo – succede perché abbiamo gusti e background diversi, e sono felice di questo, è una cosa che ci fa bene. Ad esempio Lode (Lorenzo Falomi, il chitarrista solista che si è appena unito alla band per le loro date live) suona con noi da poco e lui viene da un ambiente diverso, è un musicista formato, è un chitarrista rock in tutto per tutto, ha un suono più a la David Gilmour, per dire. Poi, vedi, Io e Stefano siamo sempre insieme, ascoltiamo più o meno le stesse cose: ci piacciono molto i classici, la musica americana di gente come Springsteen o Fleetwood Mac. Virna invece proviene dal mondo del punk, quindi ha portato questa pennellata caratteristica nel nostro sound. Edo ha studiato al Siena jazz ed è quello che ha inserito gli elementi più progressivi. Diciamo che per ora abbiamo razionalizzato bene questo minestrone. Speriamo bene per il futuro, altrimenti va a finire che diventiamo come Frank Zappa!”
Siamo quasi alla fine. Siccome, dopotutto, sono qui per vederli suonare, mi viene da chieder loro quanto conta questa dimensione particolare della loro attività musicale e se, nel calcare i palchi, c’è un qualche elemento a cui non rinuncerebbero mai.
“Dal vivo siamo molto più una rock band – non esita a dichiarare Giacomo, com l’assenso di tutti gli altri. A volte non andiamo proprio per il sottile, cerchiamo di essere meno delicati che in studio. È abbastanza ovvio che accada così: l’ambiente dello studio ci porta per forza di cose a razionalizzare, mentre dal vivo siamo più istintivi.
Sai, quando sei in studio pensi sempre a come un determinato brano potrebbe suonare. Poi ovviamente dal vivo sei istintivo però cercando sempre di avere la sicurezza e la perfezione dell’esecuzione, perché poi se suoni male e fai un sacco di errori, non ha senso.
E poi c’è anche il fatto che spesso ci troviamo ad avere un pubblico di musicisti. Ieri a Bologna, per esempio, dopo il concerto ci hanno fatto molte considerazioni tecniche e questo, oltre a farci piacere, ci mette anche un po’ alla prova, per cui anche dal vivo cerchiamo di essere il più rifiniti possibile, pur mantenendo questo piglio emotivo di cui parlavo prima. Ecco, diciamo che il nostro modello sono gli Wilco: una bella varietà di suoni, una sicurezza nell’esecuzione ma anche una libertà di improvvisare, specialmente sui finali; una cosa che in studio non possiamo fare perché studiamo sempre tutto a menadito. Sai, le nostre prove possono essere veramente stressanti, a volte!”
Mentre nominava la band di Jeff Tweedy, gli altri hanno sgranato tanto d’occhi ed hanno guardato Giacomo come a dire: “Sì ok, magari!”
Pur con le dovute proporzioni, lo show offerto dai cinque qualche ora dopo, è stato letteralmente spettacolare. Esattamente come promesso, i brani de “La vita segreta” hanno assunto un deciso piglio rock, diventando molto più ballabili e coinvolgenti, scuotendo un pubblico numeroso ma molto più attento che scatenato. Una grande pulizia nei suoni (sorprendente, visto che l’Ohibò è molto carente sotto questo aspetto) e una presenza scenica da band navigata hanno fatto di questi settanta minuti di esibizione una vera delizia per occhi e orecchie.
Saranno anche ragazzini alle prime armi, verranno pure da un posto sonnolento e anonimo, ma questi Abiku sanno come far musica. Da tenere d’occhio, perché se questo è il potenziale che hanno da esprimere, potrebbero diventare ben più grandi di così.