Lo Stato Sociale ce l’ha fatta. Hanno suonato all’Alcatraz, hanno suonato bene e hanno pure fatto sold out. Da una band che è partita da una piccola radio e che solo fino a qualche anno fa cantava “Sono così indie” è un bel traguardo. Nati nel 2009, geograficamente bolognesi, e che molto devono ai corregionali Offlaga Disco Pax, dopo una gavetta tra circoli e club più o meno importanti, due dischi adesso hanno un successo strepitoso tra i giovani. 



L’Alcatraz è essenzialmente una discoteca, un grosso palco e un sacco di spazio per pogare. Il suono non è dei migliori, ma comunque rimane uno dei club più importanti di Milano. Aprono la serata i Magellano, altro gruppo dell’etichetta Garrincha, che si presentano sul palco con delle felpe che ricordano dei panda, e una sagoma di cartone di Howard Wolowitz (sì, quello di Big Bang Theory). Si esibiscono per circa una mezz’oretta, ma non sono niente di che. Sono scialbi e privi delle canzoni che servono per un palco così, ma il pubblico se ne frega e inizia a scaldarsi, anche se caldo lo era già.



Alle 21.50, quando ormai si fa fatica a muoversi visto il numero di persone arrivate, inizia il vero concerto. Aprono con una versione violentissima di “La rivoluzione non passerà in TV” e già non si riesce a stare fermi. Continuano velocissimi, senza mai fermarsi e fanno “Piccoli incendiari non crescono”,  “Quello che le donne non dicono” e “Senza macchine che vadano a fuoco”. È essenzialmente una grossa, grossissima, festa. Il pubblico salta, balla, ride, si diverte. I cinque ragazzi sul palco non sono da meno: Lodo e Albi corrono dovunque sul palco, si scatenano come se non ci fosse un domani. Poi attaccano con “Ladri di cuori col bruco”, e se prima qualcuno voleva fare l’hipster e fingere di non godersi lo show, adesso si ricrede e inizia il delirio. I pezzi suonano meglio che da disco, sono più carichi e si instaura subito un forte rapporto tra il gruppo e gli ascoltatori, quasi fosse una gara a chi se lo gode di più. Dieci secondi per riprendere fiato (noi e loro) e riprendono suonando “La musica non è una cose seria”, e si inizia a capire che la botta di  adrenalina iniziale sta per finire, ma solo per far spazio a qualcosa di meglio. Si trascina avanti con una devastante quanto divertente “Amore dozzinale”, che convince anche gli ultimi scettici a ballare e a divertirsi.  



Fingono un matrimonio, e si capisce perché questo gruppo è così bravo live: loro riescono a passare dalla musica più ballabile a momenti di puro divertimento, senza neanche farlo pesare. Questo momento, che più che romantico o politicizzabile è surreale, viene dedicato a Giovanardi(e Lodo urla: “Lo so che ti sei bagnato tutto Giova!”). Nel mentre parte “Amore ai tempi dell’Ikea”, in una versione molto più dance e aggressiva. Garrincha si svela per l’etichetta di famiglia (o se non altro di amici) che è: sul palco arrivano Mattia Barro (voce e chitarra de L’Orso), Alberto Pernazza(la componente hip-hop dei Magellano) e Piotta (il rapper milanese con cui hanno fatto una canzone nel nuovo album) e a ciascuno son dati cinque minuti per rappare e divertirsi come dei matti. Salutati gli amici, e calmato il pubblico in estasi, attaccano “C’eravamo tanto sbagliati”. Ora, se sul disco è a metà tra una canzone di Vasco e un canto scuot, live diventa un altro pezzo: un inno giovanile, un’invocazione alla voglia di ripartire piuttosto che cedersi al disfattismo. E i “la la la” finali, cantati da tutto l’Alcatraz, sono davvero una gran cosa. 

Ancora balli frenetici, “Forse più tardi un mango adesso”, dove tutti i cinque componenti si lasciano andare a qualunque passo di danza riescano a pensare. 

Un momento per riprendersi e calmarsi, poi Lodo inizia a cantare “Il sulografo e la principessa ballerina”, gesticolando come un attore teatrale, e tutti pendono alle sue mani e alla sua voce. Stiamo arrivando all’apice dello show.  

Poi, improvvisamente e quasi bruscamente, se ne vanno tutti. Spostano la pianola al centro, ci attaccano sopra un abat-jour, e Lodo incomincia a cantare/recitare “Te per canzone una scritto ho”.  Poi arriva un ventilatore, dietro qualcuno inizia a giocare a racchettoni, poi Albi e Bebo gli spalmano pure della panna spray sulle guance. Insomma, la canzone d’amore che prende in giro la canzone d’amore sanremese, invece di essere l’apice del sentimentalismo, diventa un puro momento di cazzeggio. 

Si torna sui pezzi più ballabili, e fanno “Escapista”(per chi non la conosce, è nel secondo EP, Amore ai tempi dell’Ikea) e “Mi sono rotto il cazzo”.

Dopo queste due ci chiedono di tirar fuori gli smartphone e di usare l’app che per tutta la sera ci hanno invitato a scaricare, Wham City Lights. Dopo alcuni momenti di sincronizzazione tra i dispositivi, parte “Instant Classic”. In pratica i cellulari cambiavano il colore dello schermo, tutti assieme e tutti a tempo. Insomma, sempre per dare l’idea che più che a un concerto si è a una festa tra amici. E come dice Albi, è un po’ una trashata. 

Ormai siamo nel vivo del loro live, e sempre sul l’idea della festa, suonano “In due è amore, in tre è una festa”. Ma a metà si fermano, per fare(come la chiamano loro) un “pausa d’espressione”, “per far capire a noi il significato profondo di quello che stiamo facendo, e a voi per annoiarvi. Però la critica la ama.”  

Poi, si zittiscono tutti, si smette di ballare e Bebo canta “Linea 30”, il commovente pezzo che hanno scritto per ricordare la strage alla stazione di Bologna, del 2 agosto ’80. È stato un momento emozionante, tutti erano in silenzio, ma non si è caduti nel sentimentalismo facile o nella dietrologia da quattro soldi perché loro sono maestri nel passar da un balletto scemo a momenti come questi. E appunto, la canzone successiva è “Questo è un grande paese”, con la presenza di Piotta e di due sbandieratori d’eccezione: Checco e Carota. Dopo il casino più divertente che possa esistere, chiamano Carnesi per una straordinaria esecuzione di “Seggiovia sull’oceano”. Qui, al posto degli smartphone, quelli che si muovono a ritmo di musica sono gli accendini. 

Ormai il concerto inizia la sua coda finale, in un climax crescente di gioia e di poghi: “Abbiamo vinto la guerra”, “Io, te e Carlo Marx” e una versione devastante, da tirar giù l’Alcatraz di “Cromosomi”. Albi e Lodo fanno stage diving, gli altri ballano come dei forsennati sul palco, e nessuno riusciva a stare fermo. Dopo un finale in pompa magna, con i coriandoli sparati sul pubblico, e scrosci di applausi, il concerto è finito. 

 

Di sicuro mi sono divertito. Di sicuro il mio vicino si è divertito, così come hanno fatto i cinque ragazzi sul palco. Le loro abilità di mattatori sono incredibili: ballano e fanno ballare, ridono e fanno ridere e il tutto con una leggerezza invidiabile. Hanno suonato bene, è stato un gran bel concerto. Bello non perché musicalmente inarrivabile, non eravamo in uno dei tempi della classica o in un qualche anfiteatro romano, ma bello perché genuino. Una grande festa, tanta voglia di vivere e di divertirsi, e di godersi la realtà. Perché in fondo in fondo, si può essere felici anche il giovedì sera. 

(Gianluca Porta)