Che siamo un paese in decadenza, in piena emergenza culturale, lo si capisce anche andando a sentire i Marlene Kuntz. Un locale, il Live Club di Trezzo sull’Adda, pieno zeppo di gente che sembra accorgersi di quello che sta succedendo solamente alla fine, quando partono le prime note di “Sonica” e “Nuotando nell’aria”. A quel punto i telefonini smettono di filmare (mica tutti però!), diminuisce la coda al bar e per qualche minuto si presta attenzione a quel che viene suonato sul palco.
Per tutto il resto della serata, però, il quadro è stato piuttosto desolante: fighetti non ancora trentenni con occhiali da intellettuale e tatuaggio in vista che sorseggiano cocktail parlando e scherzando come se fossero in un locale della movida; ragazze che si atteggiano a trasgressive scolandosi mignon di sa dio che cosa e scambiandosi gli ultimi pettegolezzi sulla giornata; gente casuale che riprende tutto dallo schermo del telefonino; gente ancor più casuale che scatta foto, tagga su Facebook e messaggia su whattsapp.
In tutto questo, trovare qualcuno realmente interessato ai Marlene Kuntz del tour celebrativo di “Catartica”, sembra veramente un’impresa. Strano, perché poi il locale è strapieno, al limite del sold out. Ma dev’essere stata semplice curiosità, desiderio un po’ snob, un po’ festaiolo di andare a sentire dal vivo “un gruppo che è stato a Sanremo”, oppure “sì, li ascoltavo al liceo, erano forti” o ancora “Ho sentito una canzone alla radio, bella!”
Dev’essere proprio andata così, perché a parte qualche braccio alzato nelle prime file e gli applausi di rito a fine pezzo, le quasi due ore di concerto sono trascorse nella quasi indifferenza generale.
Peccato, perché l’occasione era interessante. O forse, a voler essere maligni, è stata proprio l’occasione a generare una partecipazione di questo tipo.
I Marlene Kuntz sono in tour per celebrare “Catartica”, il loro primo disco, che esattamente vent’anni fa irrompeva come un uragano nel panorama musicale italiano e contribuiva a ridefinire il modo in cui il rock era fino allora inteso e suonato.
Certo, gli sviluppi futuri della carriera della band piemontese non hanno mantenuto in pieno quelle promesse iniziali: l’ultimo “Nella tua luce”, uscito lo scorso anno, li ha riconfermati vivi e vegeti, ancora in grado di scrivere cose interessanti e talvolta anche di spessore, ma decisamente lontani dalla genialità e dalla freschezza degli esordi.
E così anche loro sono caduti nella trappola dell’operazione nostalgia: sia essa voluta e desiderata o molto più banalmente, perseguita per pura necessità economica, fatto sta che si configura per quello che è: rievocazione del passato.
Intendiamoci, è di per sè fisiologico che una band, nel corso della sua carriera, realizzi dei lavori che diventano punti fermi a cui paragonare tutto il resto, e che siano poi quelli più desiderati e amati dai fan. Alcuni artisti non sopravvivono ai loro dischi più importanti, altri ci devono fare tristemente i conti tutte le volte che registrano del materiale nuovo, altri ancora (di solito i migliori ma sono pochi) decidono di bruciare tutto e di guardare avanti.
Ultimamente però, questa cosa dei dischi del passato suonati per intero è diventata una vera propria moda. L’ho già scritto in passato e continuerò a scriverlo: in un’epoca in cui le nuove generazioni non comprano più i dischi (è già tanto se conoscono il concetto stesso di album), per vendere ancora qualcosa bisogna rivolgersi per forza di cose ai quarantenni e ai cinquantenni, che sono ormai tra gli unici rimasti a spendere soldi per la musica. E allora via con le ristampe, le edizioni deluxe, gli inediti e, soprattutto, i concerti a tema, utile veicolo promozionale per vendere i prodotti di qui sopra.
L’anno scorso lo hanno fatto gli Afterhours (gruppo dal presente artistico che non può certo definirsi brillante) ed è stato un successo, nel bene e nel male. Non potevano quindi esimersi anche i Marlene, che di questo genere sono stati pionieri, pur se non effettivamente legati alla scena milanese.
Si inizia come al solito ad orari insopportabilmente avanzati, ma se non altro c’è che è venerdì sera e il giorno dopo si dorme.
Il telone trasparente che copre il palco non viene calato mentre Cristiano Godano, Riccardo Tesio Luca Bergia, più il fedele Luca Saporiti al basso, fanno il loro ingresso. Si parte con le atmosfere inquietanti e vagamente psichedeliche di “Mala mela”, ma è solo con la successiva “1, 2, 3” che si entra nel vivo: il telo cade, la band si rivela al pubblico e si parte a pestar giù duro.
Atmosfera oscura, fredda, luci sempre molto basse, a lasciar intravedere solo le sagome dei musicisti, che occupano ciascuno una piccola porzione del grande palco e fanno il loro lavoro da lì, con chirurgica precisione. Cristiano Godano non dice una parola (saluterà il pubblico solo dopo l’ottavo brano) ma canta con voce potente e decisa, forse ancora meglio che nei tempi d’oro, visto che ha acquisito un po’ di cupezza dovuta all’età.
Interessante la scelta di non suonare tutto “Catartica” brano per brano, seguendone la tracklist: al di là che è una mossa ormai trita e ritrita, in questo modo le varie canzoni vengono collocate al posto giusto nel corso dello show, valorizzandone la resa live. Giusto, da questo punto di vista, che si parta grosso modo dal fondo, con bordate come “Giù giù giù” o “Fuoco su di te” a farla da padrone, mentre i grandi classici come “M.K.” e “Festa Mesta” vengono lasciati in coda, a creare un climax davvero efficace (se ne è accorta pure gran parte del pubblico, che ha alzato gli occhi dal telefonino e si è pure messa a cantare).
In mezzo, i brani di “Pansonica”, un ep (per modo di dire, visto che dura quasi quaranta minuti) che contiene brani registrati oggi ma risalenti al periodo degli esordi, brani che per un motivo o per l’altro non erano stati mai pubblicati.
Probabilmente non c’è da credere che siano del tutto e per tutto pezzi d’epoca: la rifinitura odierna è abbastanza evidente e qua e là si avvertono gli echi classic rock dei nuovi Marlene. Eppure, i sette episodi di questo lavoro sono di altissima qualità, potenti e compatti, a metà tra la cavalcata anthemica (“Sotto la luna”, “Oblio”) e le bordate noise (“Sig. Niente”, “Donna L”). Dal vivo vengono suonati tutti e bisogna dire che ci stanno alla grande e vengono pure accolti bene da quelli nel locale che stanno seguendo il concerto.
Da parte sua, la band è in formissima: se alla vigilia si poteva nutrire qualche dubbio sulla capacità dei tre di rimettere in scena un repertorio così vecchio, caustico, irriverente, per certi versi datato, senza apparire un po’ ridicoli, già dopo una ventina di minuti è impossibile pensarla così. Al di là della parte meramente tecnica dell’esecuzione (su questo non c’era da temere, in effetti), a convincere sono il tiro e l’atmosfera che vengono dati ad ogni singolo pezzo. I quattro sono una vera e propria macchina da guerra, con la batteria a fornire un tappeto preciso e potente, le chitarre, che erano il vero marchio di fabbrica di quel disco, suonano gli stessi riff del tempo e sembrano non aver perso una sola goccia di fascino (“Trasudamerica”, da questo punto di vista, ha dato i brividi). Sulla voce di Godano poi abbiamo già detto, non si poteva davvero chiedere di meglio. Si prosegue così per circa due ore, lasciando per il finale le cartucce più pesanti: le bordate di “Sonica”, suonata se possibile in versione molto più pesante dell’originale, e la ballata “Nuotando nell’aria”, semplicemente una delle cose più belle mai scritte nel nostro paese, in campo rock.
Doveva esserci anche “Musa” (che sarebbe stata alquanto fuori posto ma che nelle altre date era stata eseguita) ma il ritardo accumulato prima dell’inizio e le esigenze del dj set post serata, hanno probabilmente indotto il gruppo a lasciarla fuori. In ogni caso, non ne abbiamo sentito la mancanza.
È il solito discorso: tutta questa bellezza ha a che fare col passato e poco si sposa con l’attualità artistica di un gruppo che è ormai entrato nei ranghi dell’ordinarietà.
Resta dunque l’interrogativo sull’effettiva utilità di iniziative di questo genere: se è per regalare serate di questo livello, allora servono eccome; che poi questo basti, è un interrogativo più complesso ma qui non c’è ovviamente lo spazio per rispondere…