Pensate che Alice non sia mai andata nel paese delle meraviglie? O che il mago di Oz non esista? Falso. Da qualche parte c’è anche Mary Poppins che aspetta soltanto che il vento cambi per entrare nella casa di qualche bambino che ha bisogno di una come lei. Se non ci credete, lasciate che Emma Tricca vi canti le sue canzoni. Vi porterà dove vivono Alice e tante altre creature meravigliose. “Relic” il nuovo disco della cantautrice italiana residente da anni a Londra, vi proverà anche che è proprio vero che i cervelli migliori d’Italia fuggono all’estero. Lei, Emma, ne è esempio vincente. Certo, ci sono scienziati e docenti universitari che fanno bene il loro lavoro, ma noi abbiamo bisogno di chi ci sussurri nel cuore la bellezza e la malinconia del vivere. Che ormai non lo sa fare quasi più nessuno. 



A Londra Emma Tricca ha respirato un’aria musicale che non poteva respirare altrettanto bene qui da noi. Ha incontrato personaggi leggendari come John Renbourn, per dirne uno, e ha potuto coltivare il suo talento in condizioni favorevoli.

“Relic” è solo il secondo disco in diversi anni, dopo l’altrettanto bello “Minor White”, di questa cantautrice. Maggiormente prodotto nei suoni del precedente, con un maggior numero di accompagnatori (tra i quali gli ottimi Carwyn Ellis, leader della band inglese dei Colorama, e Andrea Garbo, altro italiano fuggito a Londra), vagamente psichedelico e più fiabesco nei toni, “Relic” è un viaggio nel tempo. Impossibile non pensare, ascoltandolo, a quel momento unico e straordinario della musica d’autore che fu la seconda metà degli anni 60. Vengono infatti in mente i primissimi lavori di artisti come Joni Mitchell, Buffy St. Marie, Judy Collins, Bridget St. John, Anne Briggs e anche Donovan. Quel mondo che attingeva al folk colorandolo di innocenti visioni fiabesche e hippie. Emma Tricca è la continuatrice di quella tradizione, e lo fa benissimo. Canzoni come acquerelli leggeri, come foglie d’autunno cadute sotto alla pioggia, come lacrime d’amore: The Painter e Coffee Time, deliziosamente avvolgenti nelle loro delicate trame folk, svelano la tenerezza di anime che si incontrano in posti sconosciuti, così come l’iniziale Golden Chimes che poi viene ripresa anche nel finale, come concludere un racconto. In Distant Screen gli arrangiamenti si fanno ancor più sofisticati, con un tocco leggero di jazz dato dalla tromba di Sean Read (già con i Manic Street Preachers e attualmente con Chrissie Hynde) e dal raffinato tessuto percussivo. Citiamo anche l’elegante Sunday reverie, aperta da un coro in lontananza, voci che si perdono nella bruma delle highland scozzesi.



Il resto lo regala la bella voce di Emma, acuta e sognante, carezzevole e intrigante, fanciullesca e maliziosa a seconda dei momenti. Mai invadente, mai eccessiva, come i suoi delicati arpeggi di chitarra acustica che fanno sobbalzare il cuore. Emma Tricca ha una qualità unica e rarissima. Ti fa sentire come se le sue canzoni fossero state scritte proprio per te che le stai ascoltando. Accade l’opposto di quanto succede quasi sempre, quando si cerca di impossessarsi di quanto ascoltiamo, carpirne il messaggio, conquistarne il codice di accesso, timorosi della troppa distanza che ci separa dal cantante. Qui è tutto talmente spontaneo e delicato che sembra quasi che l’artista ci chieda scusa per essersi messa a cantare in casa nostra. In sostanza, Emma non ci fa sentire degli stupidi per non essere bravi come lei.



Il disco italiano dell’anno? Potrebbe essere. Però arriva dall’Inghilterra.