Ultima opera in cartellone nella stagione 2013-2014 della Scala , il 31 ottobre ‘Simon Boccanegra’ ha chiuso anche  il mese verdiano – ottobre, quello in cui nacque il compositore . “Boccanegra” è stata una delle più maledette tra le opere maledette di  Verdi. Fu un tonfo alla prima a La Fenice nel 1857; rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione adesso corrente raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento,  venne dimenticata; Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934. Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria all’inizio degli Anni Settanta grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca, nettamente superiore ad una sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari  e di volumi leggeri  (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato il mondo (anche Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna) ed è disponibile in cd e in dvd. 



La maledizione di “Boccanegra” è da imputarsi ad un libretto intricatissimo e a una partitura bifronte, rivolta in parte verso il passato ma pure lanciata verso l’avvenire (si pensi all’impiego dei fagotti e del clarinetto basso, inconcepibile senza l’esperienza wagneriana). Sfoltito da tutti i ciarpami  del melodramma  ottocentesco, “Boccanegra”  è  un sofferto apologo sulla politica “bassa” e sulla famiglia. La vicenda ha poco a vedere con la storia effettivamente documentata del Simon Boccanegra che fu, in effetti, il primo Doge di Genova poiché romanzata a tinte forti, come era costume della letteratura popolare dell’epoca.  Il “corsaro” Simone, uomo del mare (da dove scaccia i saraceni che mirano a pirateggiare nelle coste tirreniche), è costretto ad entrare in politica nella speranza di potere sposare la donna amata, di stirpe patrizia. Diventa, quindi, Doge ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre più solo, e sempre più lontano dal suo mare. Ha una visione politica “alta” ma è preso nella trappole di una politica “bassa”, fatta di nepotismi , di favori, di intrighi, di colpi bassi. Quando ritrova la figlia  e quando scopre affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, è troppo tardi: il gioco del potere lo annienta, mentre sta per riavvicinarsi al suo mare. A questo dramma privato se ne affianca uno pubblico: la lungimiranza politica di Boccanegra, l’appello alla fine delle guerre tra Genova e Venezia e il sogno di un’Italia unita,  non è compreso né dai patrizi né dai plebei e anzi innesca l’intrigo di tradimenti che porta alla catarsi finale, illuminata dalla speranza che suo genero potrà continuare sul suo cammino. 



La Scala ripropone un allestimento del 2009 che fu fortemente voluto da Placido Domingo, che tornava a cantare ruoli da baritono con cui negli anni Sessanta iniziò la carriera. L’anno di nascita di Domingo è un po’ un mistero: le varie biografie autorizzate la pongono tra il 1934 e il 1941. Allora la produzione era realizzata, oltre che dal teatro milanese, dalla Staatsoper di Berlino e dal Metropolitan. In un secondo momento, il teatro di New York si tirò indietro trovandola troppo innovativa per il suo pubblico.

Nelle rappresentazioni milanesi, che si estendono per quasi tre settimane, ci sono due direttori e due protagonisti per il ritorno dell’allestimento firmato da Tiezzi nel 2010: Ranzani dirige le recite del 31 ottobre e 2, 5 e 9 novembre con Nucci nella parte di Simone, e il Direttore Musicale del Teatro Barenboim quelle del 6, 11, 13, 16 e 19 con ácido Domingo. Nella parte di Amelia si alternano Carmen Giannattasio (di cui ricordiamo gli inizi all’Accademia della Scala) e Tatiana Serjan, nei panni del Fiesco Alexander Tsymbalyuk e Orlin Anastassov, in quelli di Adorno Ramón Vargas e Fabio Sartori e in quelli di Paolo Vitaliy Bilyy e Artur Rucinski. 



Ho deliberatamente scelto la edizione Nucci-Ranzani per due motivi. Domingo, ottantenne o giù di lì, farebbe bene a ritirarsi dal palcoscenico (dedicandosi, semmai, all’insegnamento) dopo la discussa interpretazione del Conte di Luna ne ‘Il Trovatore’ a Salisburgo la scorsa estate; aveva già deluso in ‘Simon’ alla Scala cinque anni fa. Il ricordo dei tempi lenti e dilatati di Barenboim nel 2009, mi hanno fatto preferire Ranzani, di scuola gavazzeniana, e con il piglio deciso e l’appropriata colorazione orchestrale.

Andiamo agli aspetti specifici dello spettacolo. Tiezzi è un regista eminentemente teatrale. Propone, quindi, un ‘Simon’ scarno nell’aspetto scenico, anche in quanto destinato a viaggiare in teatri con palcoscenici ed impianti tecnologici molto differenti. I punti forti sono la grande enfasi sulla recitazione e la presenza (nei primi tre quadri) del mare (simbolo di libertà a cui vuole tornare il ‘corsaro’ costretto, da vicende personali, ad entrare in politica. Il punto debole è il clima costantemente cupo, mentre la prima scena del primo atto e la fine del terzo aprono, anche musicalmente alla speranza.

E’ non completamente appropriato dire , come hanno affermato, alcuni critici in sala, che Ranzani segue i cantanti. Il suo ‘Boccanegra’ non ha forse i chiaro scuri di quello di Abbado ma è molto più prossimo di tanti altri alle intenzioni di Verdi. Lo dimostra la seconda edizione dell’opera (quella che nel 1858-60 circolò in Italia e Spagna) improntata ad un pessimismo ‘cosmico’, specialmente nei confronti della politica. Indubbiamente con ‘mostri sacri’ come Leo Nucci e Ramòn Vargas si finisce un po’ con seguire le voci. Tuttavia, Ranzani fornisce una lezione presentando il ‘Boccanegra’ forse più simile a quello di Gavazzeni del 1973 (con Cappuccilli, Riccarelli, Raimondi e Domingo), una edizione da considerare esemplare almeno quanto le due edizioni di Abbado.

Leo Nucci , a 73 anni, riesce a tenere bene il ruolo , specialmente nell’impervio secondo quadro del primo atto. Sorprende nei passaggio dal tenero (il duetto con la figlia) al ‘possente’ nella sua vocalità ancora agile e con un volume di buon livello.

Carmen Giannattasio è la vera perla vocale dello spettacolo. E’ cresciuta molto da quando nel 2007, con un maestro concertatore troppo giovane per un titolo così complesso, la ascoltai a Bologna: la sua è un ‘Amelia/Maria’ di grande spessore drammatico in grado di passare agilmente dai due duetti dolci nella prima parte del primo atto all’imperioso ‘Pace’ nella seconda parte del medesimo atto. 

Di Ramòn Vargas preferisco ricordare il passato di tenore lirico di coloratura, ed anche di bari-tenore mozatiano (‘Idomeneo’) . Nel ruolo di Gabriele Adorno è apparso, il 31 ottobre, fuori parte sia scenicamente sia vocalmente. Il timbro ha perso smalto, gli acuti sono stati scansati e nel secondo atto ha preso anche un paio di stecche.

Di tutto rispetto il Paolo Albiani di Vitaliy Bilyy e lo Jacopo Fiesco di Alexander Tsymbalyuk.

Il pubblico ha attribuito ovazioni a Nucci, Giannattasio e Ranzani.