Raccontano che tanto tempo fa, a Londra, nel 1964, ci fossero i “Mods”.

Alcuni di loro, per farsi notare, fracassavano la chitarra sul palco e prendevano a calci la batteria.

Altri, invece, a sedici anni incidevano il loro primo disco, cercando di immaginare cosa sarebbero potuti diventare “da grandi”.

Uno di essi, “grande”, lo divenne veramente…”.



Pochi hanno avuto il privilegio di festeggiare in due occasioni un “cinquantesimo anniversario”.

Mister David Robert Jones è uno di costoro.

Sono trascorsi alcuni lustri, da quella notte newyorchese del 1997, quando Bowie invitò tanti musicisti che a lui si erano rifatti, in una maniera o in un’altra, per uno storico concerto che festeggiava i suoi cinquant’anni d’età.



Fu come una scossa elettrica, intensa ed improvvisa, quando ad un certo punto si presentò sul palco un signore completamente vestito di nero, con una chitarra a tracolla, e tutto il pubblico presente non poté fare a meno di urlare a squarciagola “Lou!!Lou!!!” David si voltò, e forse per un istante si rese conto che quell’uomo in fondo era l’unico, fra tutti quelli che in quella pazzesca serata avrebbero suonato accanto a lui, a non dovergli assolutamente nulla, se non un grazie per averlo aiutato a sfondare agli inizi degli anni settanta. Un valido motivo per essere presenti certo. Ma David intuì che, in fondo, quell’uomo era una sorta di “padrone di casa” a New York, e non poté fare a meno di presentarlo come “The King of New York Himself: Lou Reed!” 



In quell’immagine forse c’è l’essenza della sua genialità. Un artista che ha saputo intuire dove andasse il mondo del rock durante tutto il decennio degli anni settanta, reinventando il concetto stesso di “rockstar”, dilatandolo, plasmandolo come un alchimista che dalle sue mani sapeva dare vita ad opere intrise di una magia unica, incredibile, che ti entrava nella mente e non ti abbandonava più. Musica e immagini, una galleria di ritratti simili a maschere, che avrebbero influenzato in maniera incredibilmente definitiva almeno due generazioni posteriori di musicisti, che da quelle immagini e da quegli album, avrebbero attinto a piene mani, come  bambini che succhiavano da un seno il latte materno. Di fronte ad altre figure importantissime del rock, David Bowie si pone in maniera assolutamente differente. Non è come Dylan, per esempio. Non cercò mai di “scimmiottare” la strada percorsa dal genio di Duluth, perché intuì subito che l’impresa sarebbe stata praticamente impensabile. Ma gli rese un omaggio evidente, se è vero che in quel capolavoro che si chiama “Hunky Dory” si trova una canzone dal titolo eloquente, “Song For Bob Dylan”. 

Bowie costruì se stesso a poco a poco, passo dopo passo, vincendo le critiche e gli insuccessi iniziali, le delusioni cocenti, sopportando  gli amici che gli voltavano le spalle, o peggio. Riuscì a riprendersi un successo che pareva destinato a sfuggirgli subito di mano, e come per magia, appunto, decise che in fondo bastava affidarsi a ciò che in quel momento sentiva crescere dentro se stesso. 

Da “The Man Who Sold The World” in avanti, fino a “Scary Monsters”, la storia degli anni settanta parla di album incredibili, ognuno differente dall’altro, quasi a voler volutamente sorprendere l’ascoltatore, ad un primo esame. Ma in  fondo, ripensando oggi a quegli anni, tutto quello che Bowie seppe scrivere, organizzare, produrre, tradurre in album e concerti assolutamente favolosi, erano semplicemente i lampi di luce di una creatività che sgorgava dalla sua mente come per inerzia. Bowie non era “semplicemente” un musicista rock o uno dei migliori cantautori inglesi della sua epoca. Bowie filtrava tutto ciò che lo circondava, dopo averlo osservato e decostruito dentro di sé, facendone qualcosa di assolutamente differente. Solo questa capacità, innata, avrebbe potuto dare vita ad album assolutamente differenti a distanza di pochissimi anni. Tra “Hunky Dory” e “Station To Station” corre la stessa differenza che esiste fra quest’ultimo e “Low”, per esempio. Non è un caso.

Riscoprire oggi Bowie è come ripercorrere, attraverso le sue canzoni, (che personalmente ho dentro me stesso, e fanno parte della mia cultura, del mio modo di essere e della mia vita) un itinerario incredibile e impensabile: cinquant’anni di carriera. Tanti sono passati da quando quel ragazzino, David Robert Jones, incideva il suo primo disco, “Lisa Jane” Come una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, mezzo secolo di vita artistica che si è compiuto consumandosi insieme alla nostra giovinezza, insieme a quella dell’ artista. Bowie aveva iniziato insieme ai Beatles in fondo. E oggi festeggia i suoi cinquant’anni di attività artistica pubblicando una antologia, che esce in tre versioni differenti.  

In tanti parlarono di ritiro, di salute malferma, di stanchezza artistica ed emotiva, dal 2004 al 2013. Dieci anni di “esilio”, voluto e perpetuato con convinzione, quasi a voler dare ragione a tutti quelli che lo consideravano un “ex”, ritiratosi in silenzio , al fine di godersi gli agi di una ricca vecchiaia da vivere insieme ad una delle donne più belle del mondo. Era un silenzio che a suo modo faceva “rumore”, specialmente se paragonato al suo passato di eccessi, dichiarazioni provocatorie, alla continua e camaleontica capacità di riproporsi in maniere differenti. Anche negli anni della sua crisi artistica, negli anni ottanta, era riuscito a ritornare a galla, dopo album commerciali e “mainstream”, così lontani da quelli del decennio precedente. Ma appunto è la “diversità” che fa la differenza fra David Bowie e tutti gli altri. E se agli inizi degli anni settanta quella diversità si travestiva con i panni di una omosessualità sbandierata con fierezza, in seguito avremmo intuito, talvolta a fatica,  come quello fosse solo l’inizio di un gioco assai più sottile, che oggi celebra il suo ultimo rito.

Il singolo uscito nei giorni scorsi, prima dell’antologia “Nothing Has Changed” ci presenta un Bowie assolutamente inedito, lontano anni luce da quel “The Next Day”, l’album del ritorno, in cui i suoi vecchi fan, incluso chi scrive, avevano trovato citazioni e richiami a tutta la sua carriera. 

Bowie è già oltre. “The Next Day”, in fondo era “semplicemente” il desiderio di ogni fan del Duca Bianco di poter stringere fra le mani un album del proprio artista preferito. Non a caso la copertina era quella di “Heroes”, mutilata in volto e nel nome, come per farci capire che quella storia apparteneva ad un passato algido e distante, una sorta di malinconico richiamo ad un tempo perso per sempre. E le canzoni, con sonorità evidenti e richiami ricchi di antiche suggestioni, ci facevano rivivere quel tempo, come a penetrare il mistero di una ispirazione che, come un cuore, era ritornata a battere i suoi colpi.

“Sue (Or IN A Season Of Crime) “ ci catapulta in una dimensione sonora assolutamente inedita per Bowie: il Jazz. E lo fa collaborando con Maria Schneider e la sua orchestra. 

Non solo.

Il lato “B” del singolo che esce contemporaneamente a “Nothing Has Changed”, “ ‘Tis, A Pity She Was A Whore”, cambia ulteriormente registro: ci troviamo di fronte ad una composizione elettronica, quasi “rumoristica”, che a tratti ricorda alcune cose di John Foxx. 

Jazz ed elettronica

Il passato e il futuro.

In mezzo le storie che David ci racconta: il suo eterno presente.

Ognuna delle tre versioni dell’antologia presenta l’artista allo specchio.

L’edizione in vinile ci mostra Ziggy Stardust , il doppio cd una immagine del Duca Bianco fra “Young Americans” “The Man Who Fell The Earth”

Il triplo cd, la versione più “completa”, presenta David Bowie oggi. La sua nuca ed il suo occhio. Le spalle e il viso.

Pensavamo che ci avesse voltato le spalle: non avevamo capito che ci stava ancora osservando.

Stavolta in silenzio.

La sua diversità.

Appunto.

Non ho parlato delle canzoni contenute in questa antologia. Il motivo direi sia quasi banale: le conosciamo tutti, più o meno. Lascio al lettore il piacere della scoperta o della riscoperta. Vi sono alcune chicche per chi come me non è un “completista. E il fatto che per la prima volta appaiano i primi brani incisi dal giovanissimo David Robert Jones, ci fa capire che, forse per la prima volta, Bowie si è tolto la maschera.

La sua diversità. Appunto….