Dal suicidio di Kurt Cobain al parruccone impossibile di Adam Duritz il passo è, paradossalmente, breve. Se qualcosa ci hanno lasciato gli anni 90, è stata una infinita inquietudine, quella di una generazione X privata di qualunque cosa in cui credere, fossero state le ideologie dei loro fratelli maggiori, l’hippismo pace & amore o anche Dio. Una inquietudine disperata e disperante, un vuoto cosmico forse senza paragoni nella storia della società occidentale, il nichilismo come forma di sopravvivenza. Qualcuno agli anni 90 proprio non è sopravvissuto, Kurt Cobain appunto. Altri ce l’hanno fatta mettendo a dura prova il loro sistema nervoso e mentale. Uno di questi è senz’altro Adam Duritz, apparso sul palco dell’Alcatraz come un autentico fantasma, pauroso, un alieno, un vampiro dalla pelle bianchissima, quasi innaturale. Anche i fan più  fedeli hanno avuto qualche attimo di sbandamento, vista anche la lunga assenza dai palcoscenici italiani (14 anni, a parte una fugace visita per una sola data nel 2008), quando nella semi oscurità, con tutta la band già schierata sul palco, improvvisamente è saltata fuori quella figura indescrivibile. 



Quando mai sul palco di un concerto rock si è visto un frontman come quello? Grasso, gli occhiali da nerd, il parruccone impossibile a metà fra la capigliatura rasta e quella di madame Pompadour, la t shirt cambiata tre volte con omaggi a T Rex e David Bowie. Mimetismo, nascondimento, una maschera: d’altro canto Duritz ha sempre cantato la frantumazione dell’io, l’incapacità di trovare un ruolo. Voglio essere una star, voglio essere Bob Dylan. Voglio essere un altro, perché io non so che cosa sono. Oggi forse il cantante dei Counting Crows ha fatto pace con i suoi demoni, o forse no, certo ha portato in scena una esibizione così intensa, a tratti superba, che siamo rimasti tutti inchiodati a seguirne ogni minima mossa per oltre due ore.



La voce, quella non ha fatto paura. Tutt’altro. Adam Duritz ha dimostrato di essere uscito bene dagli anni 90, pur con qualche cicatrice addosso. Ricordando il Van Morrison degli anni 70, da sempre il suo punto di riferimento imprenscindibile, coadiuvato da una band energica e raffinata allo stesso tempo, con le movenze soniche tipiche del rock degli anni 70, quelle di un altro imprenscindibile punto di riferimento per i Corvi e cioè The Band, i Counting Crows hanno saputo traghettare gli anni 90 nei 70 e infine nel terzo millennio con uno sforzo glorioso e avvincente. 

In quella che è stata una serata di fantasmi ed eroi, sopravvissuti e sconfitti, hanno iniziato con una esecuzione travolgente, di quelle che di solito tutti gli altri risparmiano per il gran finale. Round Here, quasi nove minuti di durata, è stata l’apoteosi posta a inizio show con Duritz che più che cantare recitava, vocalmente e con i gesti, una storia ai bordi di un parcheggio abbandonato. Da quel momento nessuno o quasi si è più mosso dal suo posto, consapevole che non si poteva perdere un secondo di una serata che appariva già imperdibile. 



In realtà subito dopo quell’esordio diversi pezzi sono apparsi eseguiti senza particolari sforzi, appena un compitino ben fatto, e cioè le successive Scarecrow, Richard Manuel Is Dead e Cover up the sun. Ma è bastata Mr. Jones, indiavolata e sarcastica allo stesso tempo, a riaccendere l’adrenalina: eccolo, il signor Jones che si chiede chi è, che ruba identità altrui, che cerca di costruirsi un io inesistente, nella danza buffa e commovente di un uomo grasso e spaventato. 

Da lì il concerto non ha più avuto momenti di dubbio: Colorblind, Mercy, Omaha, la lunga cavalcata quasi hard rock di 1492Miami, sono apparse fotografie di un’America ingiallita e malinconica vista dal finestrino di un Greyhound, quello su cui viaggia da solo Mr Duritz. I luoghi della geografia americana sono un’altra caratteristica di una band che è profondamente americana nella sua essenza, e così ecco far capolino una intensa Goodnight L.A., ad esempio. Un intermezzo acustico ha rispolverato la mai riuscita cover di Big Yellow Taxi di Joni Mitchell e una invece bella e folkie Blues run the game. Più di una lacrima è scappata via poi per A Long December, con Duritz seduto al pianoforte per cantare l’angoscia dell’odore di un ospedale durante un dicembre interminabile di dolore.

Finale esaltante, esplosione irrefrenabile di gioia e liberazione, tra Palisades Park, una lunghissima Rain King e una Holiday in Spain vibrante di belle emozioni. 

E’ l’ultima serata del tour europeo. Duritz, prima, ha ricordato le notti folli di droga e alcol e belle ragazze passate a Milano vent’anni fa, e adesso sembra non voglia più andarsene. La band lascia il palco, le luci si accendono e rimane solo lui in piedi sui monitor a dirigere il pubblico mentre partono le note della classicaCalifornia Dreamin’. Non sai se ridere o commuoverti per tanta palese semplicità di cuore, per tanta voglia di comunione tra artista e spettatori, come raramente si vede nella scena rock. San Francisco da dove loro provengono è in quella California che a noi resta solo da sognare. Ma con le loro canzoni nel cuore, sarà più facile pensare che la California è solo uno “state of mind”. La Bellezza in fondo è ovunque.