“Nella grande musica folk c’è un mistero, c’è magia, c’è verità e c’è la Bibbia. Non potrò mai avvicinarmi a tanto, ma ci proverò” (Bob Dylan, New York Daily News, maggio 1967)
Era l’estate dell’amore, era l’estate del 67. Ed era l’anno della musica magica, colorata, psichedelica. I Beatles si erano inventati la saga del Sergente Pepper e a San Francisco non ci potevi andare se non avevi un fiore tra i capelli. A Monterey salivano alte nel cielo farfalle colorate e le chitarre bruciavano sul palco. Era l’estate di pace & amore, era l’anno delle buone vibrazioni. Era il momento in cui Londra diventava swingin’ e i Pink Floyd sognavano che tutti facevano l’amore su astronavi dirette verso spazi siderali. Le gonne diventavano mini, i capelli degli uomini sempre più lunghi, qualcuno andava in India a trovare il senso della vita e le droghe erano sempre di più e sempre più sconvolgenti. Il mondo stava cambiando, era l’anticipo dell’era dell’Acquario, e ogni cosa era possibile.
Ma qualcuno di tutto questo sconvolgimento cosmico non ne sapeva nulla o almeno lo ignorava.
Lassù, sulle Catskill Mountains, faceva freddo. Le case di legno erano disperse nei fitti boschi che guardavano dall’alto la meravigliosa vallata del fiume Hudson. Qua il senso di isolamento era totale. Potevi pensare di vivere ancora ai tempi dei primi esploratori che si imbattevano in qualche tribù indiana. Oppure nel tardo ottocento, quando quassù erano rimasti solo boscaioli, trafficanti di whisky clandestino, predicatori che fuggivano il demonio.
Anche loro in un certo senso erano fuggiti. Uno soprattutto. Era fuggito da una vita che lo stava ammazzando. Curiosamente, se non erano state le droghe, i contestatori che ogni sera si radunavano davanti al palco, le fan invasate che cercavano di strappargli i vestiti di dosso, i giornalisti a caccia di rivelazioni mistiche e rivoluzionarie, a ucciderlo – quasi – erano state proprio queste montagne solitarie. Un pomeriggio che stava facendo un giro in motocicletta, seguito a poca distanza dalla moglie in automobile, aveva affrontato una curva troppo velocemente e la luce accecante del sole che per un attimo aveva fatto capolino tra gli alberi lo aveva fatto sbandare mandandolo a sbattere. Si era quasi spaccato la schiena, ma quell’incidente gli avrebbe salvato la vita. Aveva infatti già dozzine di concerti programmati per i mesi successivi a cui non sarebbe certamente sopravvissuto. Adesso poteva invece riposare, ripensare a se stesso e alla sua vita, uscire dalla folle corsia di sorpasso in cui si trovava da troppo tempo e ricominciare la sua vita. Anzi no, poteva andare indietro nel tempo e in un altro mondo, dove nessuno gli avrebbe fatto del male. Poteva scegliere di andare indietro di quaranta, cento anni e trasferirsi nella Repubblica invisibile. Di fatto, c’erano dei fantasmi di quelle epoche lontane che lo stavano aspettando con impazienza. Da tempo gli chiedevano di riportarli in vita, di ridare loro la voce che era stata messa a tacere. E così sarebbe successo.
Nel mese di luglio del 1966 Bob Dylan quasi si spezzò l’osso del collo in un incidente motociclistico tra i boschi di Woodstock dove aveva una casa. Fu costretto a rimanere a letto e curarsi per molti mesi. I concerti programmati per l’autunno in almeno una cinquantina di stadi americani vennero cancellati. Intanto la sua band, quelli che una volta erano stati gli Hawks, uno dei migliori combo di rock’n’roll del Canada e che lo avevano accompagnato per circa un anno in giro per il mondo a presentare quella musica violenta, rivoluzionaria, beffeggiante, innovativa ma soprattutto bellissima beccandosi un sacco di fischi e insulti dagli integralisti di sinistra che li consideravano dei venduti al dio denaro, doveva aspettare che lui si riprendesse.
Erano sul libro paga del suo manager, Albert Grossman, e non sapevano che altro fare. Presero anche loro una casetta nei boschi intorno a Woodstock, a West Saugerties, una casetta di legno dipinta di rosa che avrebbero soprannominato Big Pink e lì si misero ad aspettare facendosi crescere la barba (ma non i capelli), tagliando la legna, giocando coi cani. Spesso anche ubriacandosi, soprattutto due di loro, Rick Danko e Richard Manuel, i più irrequieti, i più geniali, quelli che avrebbero incarnato le voci di quel gruppo. Il loro batterista, Levon Helm, se n’era andato da tempo stufo di prendersi fischi e minacce ed era andato a lavorare sui pozzi petroliferi. Sarebbe tornato però prima che quell’estate finisse.
Stavano assomigliando sempre di più a dei coloni di fine ottocento, assumevano sembianze fisiche strane, vestivano di completi neri un po’ sgualciti come dei predicatori dell’altro mondo, sembianze a loro stessi sconosciute senza rendersene conto. In quei boschi doveva esserci qualcosa di misterioso e magico che li stava catturando anche loro, portandoli in quella stessa Repubblica invisibile dove il loro capo si era già diretto. Non avevano neanche più un nome. Erano solo la band, la band di Bob Dylan. E così si sarebbero chiamati: The Band.
Le straordinarie registrazioni passate alla storia come quelle dei “basement tapes”, i nastri della cantina, in realtà almeno inizialmente non avevano niente di magico e misterioso. Come ha ricordato lo stesso Robbie Robertson più volte, si erano messi a fare musica per non impazzire. E per “fermare il tempo”. E neppure in una cantina, ma nella “red room” della casa di Bob Dylan dove registrarono un sacco di materiale a partire dalla primavera del ’67. Erano registrazioni che Dylan doveva per contratto, canzoni nuove che lui non aveva voglia di pubblicare a suo nome e che sarebbero finite ad altri artisti.
Si registrava soprattutto al pomeriggio dopo che Dylan aveva portato a scuola Maria (figlia della moglie Sara, che la donna aveva avuto da un precedente matrimonio) e prima di andarla a riprendere. E spesso anche alla sera fino a notte tarda. Dopo, quando Sara si trovò incinta del loro primo figlio, si trasferirono tutti nella cantina di Big Pink che intanto Garth Hudson, il tastierista e genio tecnologico del gruppo, aveva trasformato in un piccolo studio di registrazione. La prima dozzina di canzoni fu dunque registrata per avere dei brani di Dylan da dare ad altri artisti. La domanda del mercato per le canzoni del cantautore era infatti fortissima, anche se tutti avrebbero preferito sentirle cantate da lui piuttosto che da Manfred Mann, i Byrds, Julie Driscoll, Peter Paul and Mary, i primi questi ultimi già a fine 1967 a pubblicare uno di quei brani, Too Much of Nothing. Dylan aveva invece altre idee per un suo prossimo disco, idee che si sarebbero materializzate quando quell’estate e quell’autunno dei basement tapes sarebbero finiti, nel disco John Wesley Harding inciso a Nashville con musicisti differenti.
Il divertimento che Dylan provava a registrare in modo informale, con un gruppi di amici nel rifugio sicuro in mezzo ai boschi, lontano dagli asettici studi di registrazione di New York, da tecnici fastidiosi, da produttori “in pantofole” come lui stesso li avrebbe definiti, era però troppo. In quei mesi Dylan e i ragazzi di The Band avrebbero registrato più di cento canzoni, 138 delle quali appaiono in questo cofanetto, 31 pezzi dei quali mai ascoltati in precedenza. E dopo aver registrato come abbiamo visto una dozzina di composizioni sue, Dylan decise di buttarsi indietro nel tempo. “Bob Dylan ci stava educando” racconterà Robbie Robertson. “L’intero mondo del folk per noi era qualcosa di semi sconosciuto. Ma lui ricordava fin troppo, ricordava troppe canzoni troppo bene”. Fu una estate di scuola, quella: Robertson e gli altri ne sarebbero usciti laureati al mondo misterioso del folk che avrebbero riletto in chiave rock in maniera sorprendente già nel loro primo disco uscito poco dopo, nel 1968. Non erano più quegli acerbi ragazzini che suonavano rockabilly e canzonette alla moda cercando di fare colpo sulle ragazzine del sabato sera, erano diventati i custodi della Repubblica invisibile.
In realtà durante le prime registrazioni effettuate in quelle settimane Dylan e i ragazzi indulgevano ancora e molto nel rock’n’roll. Basterebbe in questo senso un pezzo straordinario come Odds and Ends che ben avrebbe potuto figurare su Blonde on Blonde. Oppure la ripresa di classici del primo rock’n’roll anni 50. Ma ben presto Dylan si mise a tirare fuori le più oscure ballate folk della tradizione anglo-americana. Un esempio in questo senso, che appare per la prima volta in questo nuovo cofanetto, è l’antichissima ballata di origine inglese Johnny Todd, una dimenticata canzone marinaia che Dylan dovette aver ascoltato nel repertorio dei Clancy Brothers, gruppo irlandese che bazzicava il Greenwich Village. E molto altro ancora. Dylan stava entrando sempre di più in un mondo misterioso di cui sembrava essere l’unico ad avere la mappa, il mondo della Repubblica invisibile che anni prima era stato esplorato da un personaggio pazzoide, inquietante e spesso delirante. Era quel mondo che Harry Smith aveva raccolto nella sua Anthology of American Folk Music, una raccolta di antichi 78 giri che era stata la Bibbia di ogni aspirante giovane folksinger, tra cui lo stesso Dylan. Adesso toccava a lui ricostruire quell’antologia per le prossime generazioni. E ci sarebbe riuscito.
Sono momenti di divertimento al limite dell’isteria: See You Later Alligator il classico rock’n’roll anni 50 diventa See you later Allen Ginsberg, una presa in giro dell’icona della beat generation e una presa in giro di tutto il mondo hip e della controcultura da cui loro erano fuggiti. Oppure My Bucket’s Got A Hole In It incisa da Hank Williams, brano che canta la desolazione del cuore che desidera tutto e che niente riesce a trattenete per colpa di un buco nel secchio, che diventa una furiosa aggressione a base di urla e schitarrate impietose. Sono momenti in cui ci si reimpossessa dell’innocenza e della gioventù come nella nostalgica Song for Canada. E’ come se una radio impazzita cercasse di sintonizzarsi sul canale di American Graffiti: chi siamo e dove stiamo andando si chiedono i cantanti mentre laggiù l’America sta delirando e perdendo coscienza di sé. I’m your teenage prayer con quei coretti impossibili che sembrano dei vecchi barboni avvinazzati, è quasi una preghiera mentre la tromba e il trombone di Don’t ya tell Henry sono puro New Orleans sound: davvero in queste registrazioni c’è tutta l’America.
L’influenza che queste registrazioni hanno avuto nella riscoperta all’interno della musica rock di una coscienza di appartenenza, anche un senso di mistero, è gigantesca e dura tutt’oggi. Ma basterebbe il commento di Eric Clapton: quando ascoltai il primo disco di The Band decisi di mandare a quel paese tutto quello che avevo fatto fino ad allora.
Un anno prima, intervistato dalla rivista Playboy quando era ancora il re della scena rock, Dylan aveva dato la sua interpretazione di cosa fosse la musica folk. Il fatto che ne potesse parlare, seppur con toni così apparentemente bizzarri, la dice lunga di quanto anche in quel momento così particolare della sua vita, quel mondo gli fosse profondamente nel cuore. “Sono ballate tragiche” disse, “tragiche ballate folk che forniscono la sola valida e reale idea della morte che puoi percepire oggi giorno”. Cosa intendeva con quelle parole? Bob Dylan faceva riferimento a un mondo antico, antichissimo, in cui le canzoni folk funzionavano come i giornali radio, come i notiziari televisivi, in cui ogni più piccolo fatto accaduto nelle comunità di boscaioli o contadini veniva raccontato. In prevalenza si raccontavano fatti tragici. Erano le “murder ballads” che Nick Cave avrebbe esplorato decenni dopo. Mariti che uccidevano la moglie traditrice, mogli che distrutte dalla lontananza del proprio uomo si impiccavano o si affogavano. Bambini uccisi da una madre andata improvvisamente fuori di senno. La morte. C’era però il bisogno di intervenire su quei fatti per togliere l’eccessivo carico di dolore che portavano e renderli in modo fiabesco, metaforico, rassicurante. Troppa realtà è difficile da sopportare, lo sapevano anche loro. Un mondo, una concezione della morte, che era stata rimossa dalla benpensante e sorridente società dei consumi americana che a un certo punto aveva fatto piazza pulita di tutto. “Musica folk è una parola che io non uso” aggiungeva Dylan sempre in quella intervista. “Per me è solo musica tradizionale. Musica basata su esagrammi, che proviene da leggende, dalla Bibbia, da piaghe antiche e ha a che fare con vegetali e morte. Nessuno riuscirà a uccidere la musica tradizionale”.
Quarant’anni dopo queste parole, gruppi come Mumford and Sons, Fleet Foxes e Avett Brothers avrebbero dimostrato quanto fossero autentiche: nessuno può uccidere la musica tradizionale, che torna sempre, inaspettatamente, a parlare con la gente, perché è la musica vera, quella del cuore delle persone.
“Queste canzoni” diceva ancora Dylan “parlano di rose che spuntano dal cervello delle persone e amanti che sono oche e cigni che si trasformano in angeli. Canzoni come Which side are you on (nota canzone di protesta del periodo, nda) e I love you Porgy non sono autentiche canzoni folk, sono canzoni politiche. E sono già defunte. Ovviamente, la morte non è qualcosa di accettabile a livello universale. Si potrebbe credere che la gente che canta canzoni folk sappia capire che il mistero, il mistero semplice e diretto, sia un dato di fatto, un fatto tradizionale. Potrei dirti quello che significano per me, ma qualcuno potrebbe pensare che sono impazzito. Ma comunque la musica tradizionale è troppo irreale per morire. In quella musica c’è l’unica vera morte che si possa sentire da un disco. Ma come ogni altra cosa di successo, la gente cerca di possederla. La musica tradizionale ha qualcosa a che fare con la purezza, credo che la sua insensatezza sia una cosa santa”.
Il presidente è impazzito; evviva e una bottiglia di pane; Miss Henry aprimi la porta della camera da letto. E’ questo il mondo che Dylan rievoca nelle sue registrazioni in cantina. Lui e i ragazzi che lo accompagnano ridono, urlano, si scambiano le voci. Là sotto qualcuno deve essersi divertito e parecchio in quei pomeriggi e quelle notti. Ma c’erano davvero? O erano dei fantasmi che prendevano il loro posto? Il dubbio potrebbe avere una sua valenza. D’altro canto in quei giorni Dylan registrò anche misteriosissimi brani da lui composti, uno su tutti, I’m Not There. Io non sono là.
Quelle registrazioni, più che per Dylan stesso che negli anni a seguire le avrebbe spesso ignorate, evocarono un mondo che si sarebbe trovato nei dischi straordinari di The Band e che ancora oggi trova ancora un suo spazio. Basta avere voglia di guardarsi indietro, guardare alla cantina della casa rosa. Non solo: avrebbero inaugurato il fiorente commercio dei bootleg, i dischi pirata. The Great White Wonder, contenente una decina di quei pezzi più altri risalenti a inizio carriera di Dylan, messo in vendita due anni dopo nel 1969, avrebbe venduto come un disco ufficiale smerciato nei negozi. Ma la storia non finisce qui.
Tra le tante “grandi meraviglie bianche” che vennero composte e incise in quei giorni ne spicca una. Non perché sia necessariamente la più bella musicalmente, anche se è bellissima. E’ per quello che sottintende e profetizza. In quell’estate del 1967 l’America come solo ai tempi della Guerra civile si stava spaccando in due. Con conseguenze meno drammatiche, anche se i morti non sarebbero mancati. Dylan lo aveva capito. Quella rivoluzione che era nata con i fiori nei capelli e i colori sgargianti delle droghe psichedeliche del rock’n’roll di lì a poco avrebbe messo padri e figli davanti a uno scontro drammatico le cui ferite si sarebbero cucite a fatica anni e anni dopo e forse mai del tutto. Era un mondo antico, rigidamente ancorato ai valori che avevano costruito l’America, ma incapace di aprirsi e accogliere i cambiamenti, e un mondo giovane, giovanissimo, incapace di raccogliere quanto di buono i padri avevano generato e proteso a cancellare tutto. Lo scontro si sarebbe consumato a Chicago un anno dopo e poi ancora in alte occasioni. Tears of Rage è la canzone che racconta tutto questo, anzi lo anticipa. Un padre e una madre guardano la figlia, che avevano portato in braccio, che avevano cresciuto e amato, che non li riconosce più. E’ il giorno dell’indipendenza, il giorno in cui si celebra l’America e la sua promessa, ma quella promessa, sembra dire Dylan, è andata persa. “Ti abbiamo portata in braccio il giorno dell’indipendenza e adesso ci butti via, quale cara figlia sotto al sole tratterebbe suo padre così? Ti abbiamo mostrato dove andare e scritto il tuo nome sulla sabbia ma tu hai pensato che non fosse altro che un posto dove stare”. Sono lacrime di rabbia, lacrime di dolore: torna da me, siamo così soli e la vita è breve. Con una compassione totale, Dylan guarda nel cuore del suo paese, e piange lacrime di dolore. Il pezzo, la cui musica è scritta da Richard Manuel e le liriche da Dylan, mostra che grado di collaborazione si era instaurato in quei giorni. Accadeva anche questo, là sotto nella cantina.
A parte il già citato bootleg The Great White Wonder, le registrazioni della cantina furono pubblicate ufficialmente una prima volta nel 1975, in un doppio vinile intitolato semplicemente The Basement Tapes. Quelle registrazioni però furono ritoccate in modo anche pesante da Robbie Robertson perdendo molto del loro fascino originale ed era comunque solo la punta dell’iceberg. Non solo: i pezzi di The Band qui inclusi non appartenevano quasi nessuno ai basement tapes, erano registrazioni dell’epoca ma fatte in un contesto diverso. Del disco alla fine risaltava solo la splendida copertina, con tutti i musicisti Dylan incluso e alcuni ospiti speciali come i cantautori Neil Young e David Blue, fotografati in una cantina con i vari personaggi che comparivano nelle canzoni, da Quinn the Eskimo alla Signora Henry. Fu abbastanza però per scatenare di nuovo la magia di quelle incisioni, diventate nel tempo una sorta di sacro Graal dell’opera dylaniana e ambite da tutti. Negli anni novanta uscì una serie di cinque cd, The Genuine Basement Tapes, nuovamente una pubblicazione pirata, che conteneva però quasi tutto il materiale originale, tra cui brani di cui non si supponeva neppure l’esistenza. Arriva adesso The Basement Tapes: The Bootleg Series Vol. 11 nuovo appuntamento della straordinaria serie giunta appunto all’undicesima uscita e che contiene solo registrazioni inedite, dal vivo o in studio, di Bob Dylan. Quest’ultimo è un cofanetto di sei cd contenente tutte le registrazioni che è stato possibile pubblicare, alcune di troppo scarsa qualità sonora oppure solo frammenti sono state lasciate fuori, ma si tratta di poca roba. Il disco è disponibile anche in edizione di due soli cd con il meglio e in triplo vinile a 180 grammi. E’ la versione finale, quella definitiva. Tutto è compiuto, ed è inutile dire che questo cofanetto costituirà l’ascolto ossessivo e continuativo per molti appassionati.
Come scrisse negli anni 70 lo scomparso critico musicale Paul Nelson, si tratta delle “canzoni più dure, più dolci, più tristi, più divertenti e più sagge che conosco”. Sono la voce di quella che lo scrittore Greil Marcus in un suo libro completamente dedicato a queste incisioni, definì “that old, weird America”, quella vecchia e bizzarra America. Canzoni, scrisse ancora, che sono “le voci di una comunità di fantasmi, e questi fantasmi non sono un’astrazione: come figli nativi, maschi e femmine, essi erano una comunità”. Questa comunità, questa America con la sua promessa infranta, rivivono nei Basement Tapes. Per sempre.
Ps: Bob Dylan ha completamente rimosso quei giorni dei basement tapes, dimenticati, cancellati come pensa qualcuno? E’ vero che il motto del cantautore è sempre stato “don’t look back” non guardarti indietro, ma farà sorridere più di una persona sentire che in questo cofanetto, una di quelle registrazioni risalenti al 1967 è la sua classica Blowin’ in the Wind. Dylan la suona e la canta esattamente come sta facendo dal vivo in questi ultimi anni, uno slow blues recitato più che cantato. Davvero tutto passa e tutto torna. Will the circle be unbroken è un altro dei pezzi di questo cofanetto, ma il grande cerchio della musica folk e della vita non sarà mai spezzato: davvero Bob Dylan vive da un tempo immemorabile in quella Repubblica invisibile di cui è il presidente onorario. E da lì non ne esce. Inutile cercare di afferrarlo.