Ci sono dei momenti in cui ci si ferma, si mettono le mani nei capelli e ci si chiede solo: “perché?”. Ditelo, è per soldi? Se è per soldi si potrebbe anche perdonare. Anzi, perdonare no, ma forse capire. Anzi, nemmeno capire, visto che i loro dischi, volenti o nolenti, sono ancora fra i pochissimi dischi che dopo quaranta e più anni vendono una marea di copie. Quindi i soldi non c’entrano. O almeno, FORSE non c’entrano. 



O è un omaggio ad un amico scomparso? A Rick Wright, il tastierista che più di tutti aveva definito il suono di una delle band dal successo più duraturo e cospicuo della storia del rock? Chissà. Certo che se e quando il vostro fidato recensore dovesse dipartire, bé, vi prego solo di non ricordarlo con un omaggio simile perché la sua anima potrebbe vendicarsi di voi turbandovi i sogni da qui all’eternità.



Di chi stiamo parlando? Forse l’avrete capito: dei Pink Floyd, o presunti tali, e del nuovo attesissimo album “The Endless River”. L’attesa era spasmodica. Difficile trovare, nell’anno di grazia 2014 con il mercato discografico in crisi irreversibile, la pubblicità di un disco troneggiare in un manifesto da 100 metri per 100 nel pieno centro di Milano, all’incrocio tra Via Turati e Via Moscova. 

E però già guardando la copertina si capiva che, bé, c’era qualcosina ma giusto qualcosina che non tornava. La cura maniacale con cui i Pink Floyd, nella loro carriera, hanno sempre curato la parte grafica dei propri dischi, affidandola al grafico Storm Thogerson e al leggendario studio Hypgnosis, è nota e risaputa a chiunque e le loro copertine sono sempre state delle piccole opere d’arte. Ora, Storm Thogerson è morto e i Pink Floyd (o quello che resta di loro) hanno bandito un concorso, vinto da un “artista digitale” (che cosa voglia dire questa locuzione probabilmente lo sanno solo loro) egiziano. 



Peccato che il risultato sia un incrocio venuto male fra un’imitazione da mercatino delle pulci di provincia di un quadro di Caspar David Friedrich e la copertina di un numero della rivista “Svegliatevi!”.

Nulla di incoraggiante, insomma. Tanto più quando dalle prime indiscrezioni è venuto fuori che il disco in questione non era altro che una specie di collage di frammenti sonori tratti dalle sedute di registrazione che avevano portato alla realizzazione dell’ultimo disco in studio della band inglese, quel “The Division Bell” che nel 1994 aveva costituito il canto del cigno dei Pink Floyd i quali, orfani ormai da tempo di Roger Waters (bassista ed autore di tutti i testi del gruppo), sembravano aver gettato la spugna definitivamente. Ed ecco, insomma… già il disco originale non è che fosse un capolavoro vero e proprio. Bé, figurarsi gli scarti di quel disco, c’era da pensare.

Eppure… eppure intorno a questo disco si è creata un’attesa spasmodica, come abbiamo già detto. Le radio, le televisioni (a parte Vasco Rossi o Ligabue, diciamo la verità, da quanto tempo non si sentiva la notizia dell’uscita di un album rock al telegiornale della sera?), la pubblicità, internet eccetera eccetera eccetera, tutti a rimpallare la notizia. “I Pink Floyd sono tornati, gente! Finalmente il rock è salvo!” erano le tonitruanti acclamazioni con cui la critica generalista descriveva la Notizia Musicale dell’Anno. Un mistero vero e proprio. Ma il mistero si infittisce ascoltando il disco. Perché, gente, utilizzando un coltissimo e forbitissimo paragone, questo” The Endless River” è la versione musicale di quello che “La Corazzata Potiomkin” di fantozziana memoria era per il cinema.

Ci troviamo di fronte ad un immenso monolite strumentale di 52 minuti (che diventano ben 75 nella versione deluxe per masoch…ehm, collezionisti), diviso in quattro suite in cui a farla da padrone sono le tastiere e i sintetizzatori di ogni genere di Richard Wright. Le canzoni non ci sono, a parte la conclusiva Louder than wordsalla quale, però, bisogna arrivare sfidando più di quarantacinque minuti di narcolettiche atmosfere fra ambient e tappeti pseudo-spaziali. 

Le quattro suite sono un continuo riferimento al passato glorioso dell’epopea floydiana. Nei vari frammenti troviamo mille riferimenti e citazioni del passato, da It’s what we do che insegue improvvidamente le atmosfere di Shine on you crazy diamond, dalla rivisitazione in chiave sonnolenta di Run like hell che è Allons-Y, dagli effetti sonori ora in stile Dark Side Of The Moon di Talkin’ Hawkin a quelli in stile One of these days di Calling, per arrivare alla citazione delle “chitarre-gabbiano” di Echoes nella chiusura di Surfacing.  

Il problema è che il tutto sembra una bolsa parodia di se stessi. E dire che abbiamo perfino sorvolato sugli episodi peggiori, come l’imbarazzante Anisina, che sembra essere più un surreale incontro fra il sax di Fausto Papetti e la chitarra di Joe Satriani sulla base di una tastiera gonfia e tronfia come nemmeno le peggiori pagine del neo-progressive anni Novanta piuttosto che un pezzo della band che ha scritto pezzi come Wish you were here, Time ma anche perle nascoste come A pillow of wind o tutto l’album Obscured by clouds

Roba da tenere nei cassetti e al limite da far circolare come bootleg di seconda categoria. E invece no, invece con queste frattaglie l’allegra combriccola Pink Floyd/Emi Music ci propina una ribollita che oltretutto manca di sale e di sapore, ma servendocela su un piatto d’oro e spacciandocela come haute cuisine. A dare un po’ di sapore al piatto c’è la solita perfezione sonora tipica degli album dei Pink Floyd. Peccato che la perfezione sonora, in questo caso, acuisca ancora di più la percezione della proposta musicale di questo” The Endless River”, la cui unica infinitezza sta nella maestosa noia che l’ascolto del disco intero infligge all’ascoltatore.

Ed ecco che viene da chiedersi il perché. Perché raschiare il fondo del barile con un prodotto di qualità artistica infima come questa? E oltretutto infiorettare il tutto con le immancabili edizioni ultra-lusso limitatissime da centinaia di euro, pronti a spacciarle al primo tordo che non compra più di un disco all’anno ma che “io-i-dischi-dei-Pink-Floyd-li-ho-tutti-a-prescindere”? Forse per dare il colpo di grazia ad un mercato discografico agonizzante quando non già morto e spillare quei due soldi che ancora si possono spillare? Non era meglio allora pubblicare un bel cofanetto con qualche concerto degli anni Settanta, che almeno un minimo di dignità artistica l’avrebbe avuta?

E chissà cosa avrà pensato Roger Waters, la vera e propria mente dei Pink Floyd, ascoltando questo album. Lui, che nonostante il suo lungo silenzio artistico è stato capace recentemente di regalare una vera e propria canzone capolavoro a Marianne Faithfull, quella Sparrow Will Sing che è la punta di diamante del recentissimo disco della cantante inglese, probabilmente la penserà come noi e come chiunque abbia ascoltato questo disco con un minimo di criterio. 

E cioè che, in fin dei conti, la cosa migliore di The Endless River è proprio la sua (orrida) copertina. Sul resto di una band defunta da ormai troppo tempo e sulla musica che ne promana è meglio stendere un pietoso velo bianco.