“E intanto viaggeremo senza scampo puntando solo a ciò che non finisce e gireremo in lungo e in largo il tempo in cerca dell’abbraccio che ci unisce.  E’ questo che ci spinge da più vite ad essere completi e definiti, è questo che inseguiamo dall’inizio nel sogno di momenti illimitati”.

Queste parole di Claudio Rocchi cariche di un forte senso di umana religiosità, al centro del booklet apribile del nuovo album di Alice “Weekend”, rappresentano una sintesi ideale e danno piena ragione dell’impulso che ha generato – a soli due anni di distanza dal bel ritorno di “Samsara” – il nuovo disco della grande cantautrice forlivese. 



Dove lo scorso album segnava il ritorno ad un lavoro di composizioni in gran parte inedite, questo “Weekend” (uscito lo scorso 11 novembre) si pone a metà tra un disco di interpretazioni di brani d’autore di pregio (caratteristica saliente di “Viaggio in Italia” del 2003) e quello di inediti vero e proprio.  Un titolo che semplicemente si riferisce alla vicenda di essere stato registrato nei fine settimana tra il Settembre 2013 e il Settembre 2014, un’ispirazione che – come nel recente grande ritorno di Fortis – prende le mosse da quello che è il dato di fatto più forte e stringente per la creazione e la condivisione della grande arte e della grande musica.  La disponibilità a farsi stimolare e raggiungere dal mistero che le genera attraverso le piccole e grandi circostanze che affollano la personale avventura esistenziale.



Quella di Alice ha preso la forma di un distacco di quelli che travolgono la vita con l’impatto inesorabile di una perdita, gli affetti a cui non si è mai pronti a rinunciare, eventi per i quali la maturità non esiste oppure semplicemente non può bastare.   Lì dove si apre una voragine tra il desiderio di bene permanente e uno strappo violento e in quello spazio una voce batte nel petto in maniera insistente e quasi ossessiva come un guardiano che ti ripone continuamente l’interrogativo “Cosa sei disposta a fare, dove è disposto ad arrivare il tuo cuore?”.

Alice in quanto Carla Bissi non fa altro che tradurre in versi e musica questa intuizione che piomba addosso senza preavviso e chiede solo di essere vissuta fino in fondo.  Il tutto con la complicità fondamentale dell’alter ego Francesco Messina e del jolly Marco Guarnerio.  Il presentimento che si poteva scorgere in note e parole delle splendide Morire d’amore e Autunno già (punte di diamante di “Samsara”) prende forma compiuta nell’incontro con la comune esperienza umana della recente Francoise Hardy di Tant de Belles Choses (2004).  Adattata da Franco Battiato nella delicata Tante belle cose, la canzone apre il disco facendo viaggiare sul filo di una distinta linea di chitarra acustica l’alba di quello che per la nostra interprete è un senso del destino e della mancanza completamente nuovo.  



Il proprio bisogno declamato dal profondo delle cellule come granelli di polvere carnale  presi in cura uno ad uno, si salda al prezioso lascito del Rocchi sopra citato de L’umana nostalgia.   Un canto che svetta celestiale in ascensioni di vocoder, la grande sensibilità dell’autore per melodie e frasi cosmiche rese magistralmente da Francesco Messina, la sua profonda poetica che qui richiama l’antico struggimento del Caligola di Camus.  Una vena stralunata e geniale che trae origine da quel concentrato di spiritualità e paradosso de La realtà non esiste qui riproposta dalla ricorrente e collaudata formula della condivisione delle parti vocali con Battiato.   

Il tempo e lo spazio assumono contorni e dimensioni nuove nel bel duetto con Luca Carboni di Da lontano dove una bella melodia in stile highway pop benedetta dalla tromba di Fresu, liquida nel giro di poche battute ciò che ieri sembrava  allettante ed oggi pare svanito come castelli di sabbia.   E ancora il peso di tempi rumorosi e snervanti come quelli presenti viene messo a tema in un’atmosferica e agile Veleni che riporta in auge il Battiato delle piccole apocalissi elettro-pop anni ’80. 

Un po’ d’aria ripropone la parte migliore dell’elettronica leggera dei Soerba.  Aspettando mezzanotte rinnova la potenza interrogativa del disco su una tipica figurazione melodica.  La vena intima e minimale di una Christmasripescata dai reperti demo del Buchanan periodo Blue Nile è un affondo assestato al vuoto caotico della modernità.  

Verso la fine il puro incanto di Viali di Solitudine – capolavoro risalente al periodo aureo di “Park Hotel” – viene riletto dalla nostra lasciando intatta la liquida magia dell’arrangiamento originale  e con l’inerzia dei contributi strumentali spostati in una dimensione più raccolta.

Chiude una strepitosa Qualcuno pronuncia il mio nome di Mino Di Martino che nello spazio di soli tre minuti e mezzo offre un saggio di maestria melodico-armonica.  Esposizione del tema, variazione istantanea, grande refrain vocale ricco di sfumature e sottigliezze fino al delicato volo solista di chitarra elettrica di Marco Guarnerio.  Game over con il raro fascino di lasciare un senso di attesa come pregustando un seguito della storia.