Otto anni per scrivere otto canzoni nuove. Una all’anno. Un’eternità, soprattutto di questi tempi in cui pare si sia ritornati alla iper-prolificità degli anni Sessanta e Settanta. Difficile capire cosa sia passato nella mente di Damien Rice in questi otto anni, dal suo precedente album intitolato “9” a questo nuovo “My favourite faded fantasy”. 



Certamente c’è stata la rottura con la sua storica collaboratrice e compagna Lisa Hannigan, che coi suoi controcanti aveva contribuito all’ottimo esito dei due album precedenti, l’esordio “O” e il già citato “9”, questo invero inferiore al disco di debutto, pur essendo un buon lavoro. Ma si può spiegare un blocco creativo così lungo soltanto attribuendone la responsabilità ad una delusione sentimentale? Si rischierebbe di cadere nel gossip più bieco – bieco perché malcelato dietro argomentazioni artistiche – e di semplificare il concetto di “processo creativo”, di banalizzarlo rendendolo una mera proiezione della vita del suo creatore. Certo è che, però, Damien Rice non ha mai fatto mistero dell’intimo legame presente fra la sua esistenza e le sue canzoni.



Facciamo però un passo indietro ed andiamo al settembre del 1974. Voliamo anche da un continente all’altro: dall’Irlanda di Damien Rice agli Studi A&M di New York. Lì dentro c’è Bob Dylan che sta registrando con un gruppo di musicisti, i Deliverance di Eric Weissberg. Alcuni di loro sono scappati, infastiditi dal modo di lavorare di Dylan, che non suona mai la stessa canzone per due volte nello stesso modo. I brani su cui stanno lavorando sono brani lunghi e personali, ricchi di immagini poetiche ma anche di tanta esperienza di vita vissuta realmente. È la storia di una separazione, quella fra Dylan e sua moglie Sara. La storia però subisce una sublimazione: Dylan parte dalla propria esperienza per arrivare altrove, a costruire una serie di immagini poetiche lucide al punto da fare impallidire sia i musicisti che erano con lui in studio, sia i primi fra gli ascoltatori delle registrazioni. Dylan avrebbe poi, nel corso del tempo, dissimulato la componente personale di quel lavoro, arrivando a scrivere che le canzoni si rifacevano non all’esperienza ma ai racconti di Anton Cechov. Ovviamente non ci credeva neppure lui. Sapeva benissimo che quel disco era la narrazione del proprio matrimonio in pezzi, rielaborata però attraverso gli specchi dell’arte. In questo senso, Dylan si trasfigura in Arthur Rimbaud, citato peraltro in You’re gonna make me lonesome when you go assieme a Paul Verlaine, e nella sua affermazione-manifesto “Io è un altro”. Solo così l’artista può raccontare se stesso senza cadere nell’autoreferenzialità.



Da quelle registrazioni ne venne fuori un capolavoro, Blood on the tracks, considerato unanimemente fra i migliori album rock di sempre. E nacque anche un vero e proprio genere, quello dei cosiddetti “break-up records”, i “dischi della separazione” (anche se un anno prima c’era stato un precedente eccellente, Phases & Stages di Willie Nelson, vicinissimo a Blood on the tracks anche per atmosfere musicali). Dopo Dylan ci provarono in molti a raccontare la fine delle proprie relazioni in musica. 

Nel 1977 ci riuscirono in parte i Fleetwood Mac con Rumours, disco da svariate milioni di copie vendute ma il cui contenuto personalissimo passava in parte in secondo piano a fronte della perfezione pop-rock della componente musicale. Altri, invece, pur nella dignità del risultato, finirono alla fine per incartarsi in una pericolosa autoreferenzialità. Bruce Springsteen con Tunnel of love, Phil Collins con Face value, Rosanne Cash con The Wheel, Jackson Browne con I’m alive, John Martyn con Grace and danger e via dicendo. Erano tutti lavori piuttosto validi ma con un germe di vizio alla radice: l’io del narratore non diventava mai “un altro” come in Dylan, rimanendo quindi alla superficie delle proprie emozioni. 

Il nuovo disco di Damien Rice appartiene senza dubbio a questa schiera di lavori. Viene perciò spontanea la domanda: può Damien Rice riuscire dove innumerevoli artisti di caratura superiore hanno – seppur parzialmente – fallito? La risposta è secca: sì. My favourite faded fantasy è un disco  importante e consacra il suo autore come uno dei migliori autori ed interpreti musicali del Nuovo Millennio. Ed è importante perché riesce a universalizzare il dolore della separazione e del distacco attraverso una sorta di spersonalizzazione, traducendolo in immagini poetiche forti e dense (bellissimi i versi “All these useless dreams of living alone/Like a dogless bone” di Colour Me In o ancora “It takes a lot to give/To ask for help, to be yourself/To know and love what you live with/It takes a lot to breathe, to touch, to feel/The slow reveal of what another body needs” da It takes a lot to know a man”). 

Le liriche però non bastano da sole a fare grande una canzone o, ancor di più, un disco. È qui che, in un certo senso, My favourite faded fantasy riesce a centrare il bersaglio. Lasciate da parte le suggestioni più elettriche che avevano caratterizzato alcuni episodi passati del musicista irlandese nonché le solitarie atmosfere acustiche che ne contraddistinguono i concerti, spesso in solitaria, le canzoni di questo nuovo album sono rese ancor più maestose dagli intrecci fra una strumentazione scarna – pianoforte, chitarra acustica, poche linee di basso – ed improvvisi crescendo orchestrali, con gli archi che creano delle vere e proprie mura sonore e che producono vertiginosi crescendo all’interno dei singoli brani. C’è una coerenza musicale che attraversa le otto tracce di questo disco che pare quasi disarmante. Merito di Damien Rice e della sua scrittura, solidamente ancorata su strutture essenziali e folkie, che rende le canzoni valide anche se suonate con strumentazione minimale, nonché della sua interpretazione, giunta ormai ad una maturità vocale notevole. 

Una buona parte del merito è però da attribuire al produttore Rick Rubin, quello della serie American Recordings di Johnny Cash, che se negli album di Cash lavorava per sottrazione, in questo disco stratifica gli arrangiamenti, giocando sulle dinamiche dei pezzi. Gli esempi perfetti di questo turbinante lavoro sono It takes a lot to be a man, otto minuti vertiginosi con un trascinante ritornello e con una coda di archi quasi ipnotici, e Trusty and true, in cui il gioco onda-risacca si fa potente, dove i momenti di quiete ed un bridge che parrebbe evocare gli episodi più eterei del Tim Buckley degli esordi, esplodono nel finale quasi gospel, dove nei versi “Come, come along/Come with sorrows and songs/Come however you are/Just come, come along/Come, let yourself be wrong/Come however you are/Just come” compare la voce di Marketa Irglova, la ex compagna di avventura di Glen Hansard, che, a sua volta, nei recenti tour si fa accompagnare da Lisa Hannigan.

Proprio in ragione di questa coerenza stilistica, gli ascoltatori più critici hanno obiettato che questo My favourite faded fantasy non sia altro che una sola, estenuante, canzone lunga cinquanta minuti. Questa impressione ha delle sue ragioni. Tuttavia, questo nuovo album di Damien Rice è uno di quei dischi che emergono alla distanza, ascolto dopo ascolto, e solo così è possibile coglierne i dettagli e le sfumature, addentrarsi nel suo ricercato spettro musicale. Ciò non vuol dire che My Favourite Faded Fantasy sia un album difficile o riservato ad un’élite ristretta di ascoltatori. Tutt’altro: la natura importante del disco sta nella capacità di Rice di riuscire in un impresa rara al giorno d’oggi: riuscire a mettere d’accordo il grande pubblico, quello che la musica l’ascolta quasi soltanto alla radio ed in maniera distratta, e gli appassionati più attenti ed esigenti, quelli per cui il successo di massa di un artista molto spesso equivale ad uno svilimento dell’arte. 

Il suo è un piccolo miracolo, specie in un mondo dove la fruizione musicale è sempre più frammentata e superficiale e sorprende il fatto che canzoni così consistenti possano essere trasmesse – al giorno d’oggi – anche sulle radio generaliste. Anche per questo My Favourite Faded Fantasy è un piccolo capolavoro, uno di quei dischi – purtroppo ormai così rari – che se gli si concede abbastanza spazio sono capaci di allargare il cuore.