“Che razza di gruppo sono i Velvet Underground che nel giro a malapena di due anni passano da una canzone come Heroin a cantare di Gesù?”. La frase del celeberrimo e più acuto giornalista rock della storia, Lester Bangs, campeggia in apertura del libretto che correda l’edizione deluxe in occasione del 45esimo anniversario dell’uscita del terzo album dei Velvet Underground, quello intitolato semplicemente con il loro nome. Ed è una domanda a cui 45 anni dopo nessuno è ancora stato in grado di rispondere.
Se anche Lou Reed non avesse più inciso un disco o una canzone dopo lo scioglimento di questa band, il suo nome sarebbe ugualmente quello che è, quello di uno dei massimi artisti del Novecento.
Conosciuto anche come “The Grey Album”, il disco grigio, per via della foto di copertina in bianco e nero, ma anche per il mood introspettivo e malinconico, si può forse definire il primo vero disco di Lou Reed. John Cale infatti se n’era andato, troppo forti i contrasti con l’amico e collega, e anche l’influenza di Andy Warhol era ormai scemata. Il risultato sarebbe stato un disco diverso dai magnifici precedenti, ma altrettanto bello.
C’è una redenzione che passa sottile in questo disco, dopo i disfacimenti e la trasgressione dei precedenti. Dopo la lunga notte nel lato selvaggio della vita, dopo le visioni infernali, le tentazioni, il vizio e il disfacimento, New York si risveglia. Il terzo disco dei VU è come un’alba, ancora grigia, ancora con gli occhi che fanno fatica ad aprirsi, ma c’è una luce, ci sono luci che chiamano a un nuovo risveglio. Sto ricominciando a vedere la luce, “beginning to see the light”, canta Reed. Sono liberato, “I’m set free”, aggiunge. Fino alla preghiera impossibile, a Gesù. Un brano come Jesus, composto da un ebreo schizoide, eroinomane e tendenzialmente omosessuale, la dice lunga di questo percorso, anche se lo stesso Reed non ha mai saputo spiegare come gli venne l’ispirazione per scrivere quella dolcissima preghiera e soprattutto perché gli venne. Ma è così che nascono le preghiere migliori, semplicemente arrivano.
Un percorso di redenzione che però si identifica anche con la metropoli, la New York tanto amata da lui, nei locali da bassifondi aperti tutta notte di After Hours, negli amori omosessuali di Thats’ the story of my life, nella malinconia impossibile da sostenere della dolcissima Pale blue eyes, nella tenera dedica al transessuale Candy Darling, morto di cancro per via delle iniezioni di ormoni femminili di Candy Says (di cui Lou Reed, giustamente, disse di essere una delle migliori canzoni da lui mai scritte). Davvero in questo disco c’è l’essenza più profonda di Reed, che sarebbe poi esplosa nei suoi dischi solisti successivi. Non a caso un verso, contenuto in Some kinda love, sarebbe stato ripreso per intitolare la raccolta di testi scelti da lui stesso, “Between thought and expression”.
“The Grey Album” è chiaramente un disco di transizione. Al posto dello sperimentatore Cale, nel gruppo arriva Doug Yule, un rocker senza pretese, al quale Reed darà da cantare proprio Candy Says, per via della voce rovinata per le troppe esibizioni live. Qualche decennio dopo, il sottoscritto ebbe modo di sentire questo brano dal vivo eseguito da un ancora semi sconosciuto Antony, un transessuale dalla voce angelica, tra i fischi di un pubblico beota che la voleva cantata dal suo autore. E’ un pezzo musicalmente così fragile e intenso che il suo autore, appena ne ha avuto la possibilità, ha sempre preferito affidarlo ad altri. Come succederà spesso nel corso della sua carriera, Lou Reed scrive in prima persona dal il punto di vista di un’altra persona. La sua capacità di empatia, di identificazione in soggetti carichi di dolore e di sofferenza è tale che l’artista e il soggetto diventano una cosa sola.
Lou Reed, come pochissimi altri, ha saputo abbracciare il dolore altrui fino a farlo suo con una misericordiosa capacità che solo a un incallito bastardo può non far scappare più di una lacrima. Quella sera Antony era Candy. Candy dice che odia il suo corpo, Candy dice, se solo potessi camminare via da me stesso. Quella sera Antony era Candy che desiderava fuggire da un corpo che non sentiva suo, e per i minuti che quella canzone durò, questo accadde. Ma come in ogni grande esperienza artistica, Candy Says è anche più di questo, come lo stesso Reed anni dopo avrebbe detto: “Ci guardiamo allo specchio e non ci piace quello che vediamo. E non solo nel modo di apparire fisico, ma in tutto ciò che ti viene richiesto come essere umano”. L’impossibilità a sopportare se stessi è esperienza che accade a tutti coloro che prendono sul serio la propria esperienza umana.
Quella sera fu un momento di trascendenza assoluta, come raramente accade in un concerto rock, con lo stesso Lou Reed che guardava e ascoltava estasiato quell’omone corpulento lasciar uscire dal suo corpo anima e cuore,rivelando, tranne che a quelli con l’anima in pensione, quanta grandezza è insita in quel brano.
Il fascino di questo disco, tra le altre cose, sta nel minimalismo assoluto, caratteristica comune di ogni lavoro dei VU, ma qui ancora più accentuata. E’ come se i musicisti in studio avessero giocato, lasciandosi liberi di sperimentare, senza curarsi del risultato ultimo, divertendosi, interrogandosi. Non c’è più il rock anfetaminico dei precedenti lavori, quella carica brutale che li aveva caratterizzati. C’è qualcuno che sta facendo pace con se stesso. Ma c’è un forte impatto musicale che spunta ovunque, ad esempio nel crescendo esaltante di I’m set free, o nell’oscuro e tormentato gospel folk di Jesus, e c’è anche una sorta di sfida a John Cale, nei quasi dieci minuti di The Murder Mystery. C’è anche una gioia irrefrenabile in questo disco. Beginning to see the light è un rock’n’roll irresistibile, grida di esaltazione sfuggono al cantante mentre altre voci lo inseguono. Tre chitarre all’unisono picchiano senza ritegno un riff unico e inarrestabile con gusto e divertimento.
Un disco che si chiude nell’ode ai mille locali notturni di New York dove una ragazza sola guarda gli altri ballare e divertirsi e non capisce perché non riesce a sentirsi felice come loro. After Hours viene cantata dalla batterista Maureen Tucker. Reed gliela affidò perché riteneva avesse una voce più “innocente” della sua. Innocenza e redenzione: il grande cuore di Lou Reed e della sua New York.
Il disco che esce adesso, come sempre in questi casi, ha diverse edizioni. Quella di sei cd contiene i due differenti missaggi effettuati ai tempi, quello definito Valentine Mix uscito solo in Inghilterra e quello originale fatto da Reed per il mercato americano. C’è poi un cd di brani in studio, un disco che non uscì mai (avrebbe dovuto essere il quarto album della band) e che vede molti pezzi poi ripresi da Reed nella sua carriera solista, anche se non si tratta di inediti in quanto già pubblicati su antologie precedenti come “VU” e “Another View”.Infine un doppio cd registrato live nel 1969 al Matrix di San Francisco, un concerto con la formazione senza Cale pubblicato nel corso dei decenni in svariati formati tra cui il doppio degli anni 70, “1969: The Velvet Underground Live” e diversi bootleg di cui esistono però ancora undici canzoni non ancora rese pubbliche. E’ una fotografia di una band in trasformazione con momenti eccellenti ed esaltanti, in cui il nuovo sound appare in modo evidente, ad esempio nel modo rilassato – tranne l’accelerazione finale – con cui viene eseguito un pezzo come I’m Waiting for the Man. C’è poi la versione doppio cd che contiene invece il disco originale e un cd con undici brani sempre dal Matrix.
(L’autore ringrazia Daniele Federici di loureed.it per le preziose informazioni e per la “visione”)