Dave Grohl è uno dei personaggi più genuini e interessanti di tutta la scena rock. Non si è mai dato arie da star (nonostante a tutti gli effetti lo sia), sempre coi piedi ben piantati per terra, è rimasto uno da piccoli club anche se, prima coi Nirvana e adesso coi Foo Fighters, sono ormai anni che riempie gli stadi. 



Al pari di Bruce Springsteen e pochi altri, incarna il modello del classico rocker a stelle e strisce, uno che ci mette lo stesso impegno nell’incendiare il Giant Stadium e nel grigliare un hamburger. 

Proprio per questo, parlarne male è praticamente impossibile. Ed è dunque con profondo imbarazzo che mi trovo a dover affermare che questo “Sonic Highways”, nuovo lavoro in studio dei suoi Foo Fighters, è un disco completamente inutile. 



Intendiamoci (e qui so che c’è il rischio di far scoppiare un bel polverone): l’utilità dei Foo Fighters, nel mondo del rock, io non l’ho mai capita. Sono usciti immediatamente dopo la scomparsa di Kurt Cobain, con un disco autotitolato che portava in copertina una pistola, una scelta provocatoria su cui la gente passò tranquillamente sopra, visto che la band aveva soprattutto il merito di andare velocemente a riempire il vuoto che la morte del singer di Seattle aveva provocato. 

Dave Grohl era già allora un gran personaggio, ma non se ne erano accorti in molti, essendo i fari sempre puntati su quel biondino dall’aria fragile che si è poi capito incapace di reggere tutta quella pressione. Era seduto dietro al drum kit, Dave Grohl, così che quando con la sua nuova creatura decise di di imbracciare la chitarra e di mettersi dietro al microfono, in molti commentarono questa scelta come opportunistica: “Se fosse rimasto alla batteria – ricordo ancora le illazioni di certi miei amici dell’epoca – chi vuoi che si sarebbe accorto che nella band c’era un ex Nirvana?” 



Ma la verità è che lui la chitarra già la suonava, e che si dilettava a cantare sin dai tempi in cui, da ragazzino spiantato e ribelle, viveva a Bologna, allora (piange il cuore a ricordarlo) una delle capitali musicali europee. 

Gran personaggio, dunque, ma sicuramente non grande songwriter. Perché se c’è una cosa che al barbuto singer di Warren non è mai riuscita bene, è proprio lo scrivere canzoni. Per carità, non ha mai fatto niente di veramente brutto; ma neppure qualcosa che facesse gridare al miracolo. 

Che c’è, siete tutti inorriditi? Prima di mandare al sottoscritto lettere minatorie, però, cercate almeno di capire il mio punto di vista. Probabilmente è un problema mio, visto che loro vendono milioni di copie, suonano negli stadi di tutto il mondo e io è già tanto se arrivo a fine mese. 

Ma io, quando tutti hanno iniziato ad impazzire per loro, non sono proprio mai riuscito a farmi contagiare. Certo, qualche cosa realmente sopra le righe l’hanno fatta: “Everlong” è un pezzo meraviglioso, così pure “Best of You” e la stessa cosa può essere detta di “Long Road to Ruin”, contenuta in un disco come “Echoes, Silence, Patience and Grace”, che forse ha segnato l’apice artistico del quartetto americano. 

 

Al di là di questo, l’ho sempre considerata una band da greatest hits: una raccolta di successi la puoi anche ascoltare per intero, un singolo album proprio no. 

Il precedente “Wasting Light”, tuttavia, mi aveva colpito: ne avevo apprezzato il suono sporco e ruvido, la registrazione in presa diretta, il tentativo (magari artificioso ma comunque ben riuscito) di tornare ad un’attitudine più da garage rock, la voglia di picchiare duro senza perdersi nei singoli da classifica. Non sarà stato un capolavoro ma fu comunque un prodotto di cui gioire. 

Ora, a distanza di tre anni, giustamente consci del fatto che non è bello riscaldare la minestra, tentano un’altra strada, quella di una maggiore ricercatezza ed elaborazione: non fraintendetemi, non si sono messi a scimmiottare i Genesis o i King Crimson. Semplicemente, hanno cercato di scrivere dei pezzi un attimino più complicati, inserendo qualche riff in più, qualche cambio di tempo e una maggiore varietà di atmosfere e linee vocali all’interno della medesima canzone. 

Dopotutto è un qualcosa che rispecchia il concept del disco, sicuramente il più elaborato mai scritto dalla band: otto canzoni, per otto città americane che in qualche modo hanno influenzato il processo creativo di Dave Grohl e il suo cammino per diventare un musicista. 

Ci sono ovviamente Seattle, poi Chicago, New York, Nashville, New Orleans, Los Angeles, Austin e Washington D.C. Grohl e la band si sono recati in ognuna di esse, hanno realizzato un documentario di un’ora circa (prodotto dalla CBO e mandato in onda a partire da ottobre), in cui hanno parlato delle rispettive scene musicali intervistando anche qualche collega, dopodiché hanno suonato e registrato un pezzo originale, ispirato a quella stessa città. 

Date le premesse, era evidente che “Sonic Highways” non sarebbe stato un disco lineare, almeno in apparenza. 

Lo si è visto già dal primo singolo, “Something From Nothing”, (Chicago) che inizia arpeggiato e cresce fino a sfogarsi nella parte centrale e presenta un riff piuttosto intricato sui cui si appoggia tutto il crescendo della sfuriata. 

Anche “Outside” sembra essere su questa falsariga, con la sua ritmica sostenuta da un basso martellante, i suoi riff al fulmicotone e una jam nella parte finale che va a citare vagamente i Crazy Horse. 

E al medesimo intento risponde probabilmente l’inserimento di una doppia traccia, “What Did I Do/God As My Witness”, che è appunto una sorta di fusione tra due pezzi diversi: intro pianistico, che si riempie piano piano fino a sfociare nel classico rock a la Foo Fighters. La seconda parte vede invece un ritornello lento, solenne, quasi epico. 

 

Fin qui, gli elementi più o meno innovativi. Che poi, a ben vedere, proprio innovativi non sono (semmai sono cose che la band non aveva incorporato spesso nel proprio sound) e che non riescono da soli a risollevare un disco che appare già segnato in partenza: va benissimo per battere il piede e scuotere un po’ la testa, ma non chiedetegli niente di più.

Tutto il resto, in effetti, sa molto di ordinaria amministrazione: “The Feast and the Famine”, tirata e quasi punk, è forse il brano che più si avvicina come attitudine al disco precedente, ed è per questo che al sottoscritto pare l’episodio migliore. 

“Congregation” è invece il classico singolone radiofonico, con melodie catchy e suono laccato. Si intravede il desiderio di comporre la nuova “Everlong” ma, lasciatemelo dire, l’originale rimane là, intoccabile. 

“In the Clear” riprende più o meno la stessa formula, ed infatti è uno dei brani più commerciali del disco, nonchè uno dei più brutti. 

Poi ci sono le chitarre acustiche di “Subterranean”, ad introdurre una power ballad dal sapore malinconico, mentre il tutto si chiude con “I Am a River”, polpettone lungo e piuttosto noioso, che finisce col fare il verso ai Nickelback. 

 

Un progetto coraggioso, in fin dei conti, e bisogna dare atto a Dave Grohl di saperne sempre una più del diavolo e di avere avuto davvero una bellissima idea, quella di raccontare le città e le rispettive scene musicali, facendone capire il profondo rapporto di compenetrazione. Ma se sulla qualità della serie tv non nutriamo alcun dubbio, altrettanto non si può dire della colonna sonora.

Tutti i limiti compositivi che i Foo Fighters hanno mostrato nel corso degli anni, sono venuti fuori senza troppi problemi, forse anche più di prima. 

Dunque questo disco è inutile, dicevamo. Inutile non tanto perché non aggiunge nulla a quanto fatto da loro, oppure perché non costituisce un nuovo e brillante capitolo della storia del rock. 

No, è inutile semplicemente perché è un lavoro piacevole, prodotto e suonato benissimo ma che poi, quando arrivi alla fine e consideri tutte le cose belle che sono uscite nel frattempo, non ti viene per nulla in mente di ricominciare daccapo con l’ascolto. Non ci fosse stata una recensione da fare, me lo sarei già dimenticato da tempo. 

 

Poi è il solito discorso: venderà molto, ma proprio molto di più di tutte le altre uscite del 2014, un sacco di gente lo adorerà e lo considererà un capolavoro. Nessun problema su questo: siamo stati tutti creati liberi e se c’è gente che continua a considerare Virgin Radio un punto di riferimento, si faccia pure del male da sola. 

Ma lo ripeto ancora una volta: è un disco inutile, anche se Dave Grohl è un grandissimo ed è anche grazie a lui che il rock è una bella cosa. Dovessero suonare al Primavera di Barcellona, come già da un po’ si vocifera, sarò sicuramente presente: poche band dal vivo sono come i Foo. I dischi però, lasciamoli pure sugli scaffali ad impolverare.