E venne il giorno in cui la voce partorita dal sophisti-pop retaggio degli anni 90, andò in fuga da quella decade alla scoperta degli stratagemmi e delle opportunità narrative della musica d’autore.  Ascoltare per credere.  

Amelie – al secolo Paola Memeo – cantante di pregio con ascendenze in quel filone levigato percorso quattro lustri fa dalle varie Irene Lamedica e Camilla con approdi successivi verso la completezza espressivo-timbrica di una Petra Magoni, si è sorpresa sprecata nel ruolo di potenziale star radiofonica e si è spinta oltre affacciandosi sull’insolito.   



Le credenziali ci sono sempre state e ci sono.  Mentori e compagni di strada come il producer-arrangiatore Giovanni Rosina, da sempre al lavoro su progetti tra il pop, il rock e la musica d’autore, musicisti “esterni” di vaglia come il chitarrista Marco Trifone a portare in dotazione un vasto patrimonio in termini di riferimenti al rock delle grandi decadi 60-70.  Amelie ha assunto su di sé il rischio, ha deciso di fare il salto tentando di convogliare queste esperienze in un progetto di canzone pop di alto livello, bypassando regole predefinite e steccati.  Dal tipico all’atipico senza forzature e istrionismi fuori dal copione, semmai con un di più di consapevolezza e di visione d’insieme al servizio della creatura canzone.  



Ecco allora un disco in cui la nostra – autrice di quasi tutte le musiche con il prezioso imprinting in fase di arrangiamento dell’alter ego Rosina – non esita a spiattellare una lunga serie di vere e proprie confessioni senza remore.  Un diario di bordo dei nostri giorni dove l’innato e sincero senso di positività della protagonista non tace l’incombenza di malesseri, crisi e nostalgie esistenziali.   

Tanto che la prima parte del disco finisce per tracciare il mood prevalente di un album dove quel tarlo di fragilità e congenita mancanza si attacca all’anima e alle costole, si dirada e ritorna sino a lasciarne l’impronta anche sull’epilogo.   



Il nuovo mostro è l’inizio che non ti aspetti e che non passa inosservato.  Tiro rock d’atmosfera apparecchiato da un basso pulsante, chitarre affilate e batteria irruenta per un brano dove la voce liquida di Amelie declama con un senso di angoscia e compassione la morbosità smascherata dal testo, quasi sovrapponendosi ad esso alla maniera di un doppio binario narrativo.  

Messaggi, preghiera implorata dagli abissi, è il lasciapassare per una coppia di brani che punta sul climax dei rispettivi refrain per rappresentare al meglio dramma e nostalgia messe a tema dall’autrice insieme al paroliere Fabio Papalini.  Da un lato la title track Il profumo di un’era, delicata e soffice evocazione di radici e affetti familiari con i suoi picchi da melodia europop di origine controllata, dall’altro Milano, power-ballad sostenuta da accordi ampi e pieni sonori carichi di patos.  Entrambe tra i momenti migliori del lavoro.

Una tensione che non cala neppure nell’allegro simulato (con un tocco di crudele ironia) di Zero, duetto con il bravo Stefano Ardenghi condotto alla maniera velatamente ambigua di un Bianconi.  In questo contesto il break sereno e rilassato della già nota Con il naso all’insù (primo singolo risalente a due anni orsono), seguita dall’allegra Mondobit e dalla leggera Ti ho ucciso con un click ottengono un effetto di tregua momentanea prima della ripresa di ostilità che hanno nelle sottili variazioni de L’alieno delle 3 un momento particolarmente incisivo e degno di molti ascolti. Il finale vede passare in rassegna queste due differenti anime del lavoro in rapida sequenza.  Si riascolta unaDicembre ispirato e musicalissimo omaggio alle grandi melodie feel good in quota ELO (gli arrangiamenti di archi sono molto eloquenti) e la forza anthemica di Un’altra vita, raggiante ballad rock-oriented debitrice delle possenti arie del secondo Ruggeri.

Il patrimonio stilistico del grande cantastorie milanese fa capolino pure nella seguente Che cosa c’è.  Atmosfere che si placano per l’ennesima volta per dare vita a un breve e intenso quadretto intimo fatto di affezione epietas, colori nitidi e tenui solcati da dolcissimi arpeggi di chitarre acustiche, piano e archi.  E su tutto le voci.  Quella avvolgente e pastosa di Amelie bilanciata da quella grave e inafferrabile della talentuosa cantautrice friulana Rebi Rivale.  E’ il momento più alto dell’album, un fiore all’occhiello della musica italiana dell’anno che va a concludersi.

Polaroid lascia intatto quel senso di interrogazione che codifica gli umori del disco.  Come nel primo brano la band (oltre a Rosina alle tastiere, agli esterni di lusso Marco Trifone alle chitarre e Luca Garufi al piano, il chitarrista Vincenzo Rizzuti, il bassista Jorge Machado e il batterista Daniele Giuliano), torna sugli scudi e accompagna la nostra all’uscita.  Ma come nelle belle rappresentazioni che lasciano un senso di buono e di integro, una replica val bene farsi ancora una fila o comunque la pazienza di riascoltare, approfondire e assaporare.