Quando quest’estate ero in Australia, ricordo che per le strade di Melbourne era piuttosto facile imbattersi nei manifesti pubblicitari di “20.000 Days on Earth”, il film di Iain Forsyth e Jane Pollard che racconta, appunto, il ventimillesimo giorno sulla terra di Nick Cave. Ma d’altronde stiamo parlando del suo paese natale, di un posto in cui il libro “And The Ass Saw The Angel”, certamente non un prodotto per tutti, si trova in vendita praticamente anche nelle salumerie.
Qui da noi è un po’ diverso: il film è arrivato nelle sale soltanto per due giorni, il 2 e il 3 dicembre, prodotto dalla Nexo Digital, ma è già più di quanto avessimo osato sperare. Vero che la musica rock su grande schermo sta tornando di moda, che negli ultimi giorni abbiamo anche visto il documentario sulla vita di David Bowie e che a brevissimo uscirà, completamente restaurato, anche lo storico “Quadrophenia” degli Who.
Ma qui siamo su un terreno differente: “20.000 Days on Earth” non è un film concerto e neppure un canonico documentario in cui l’artista di turno si racconta per le telecamere, ripercorrendo le fasi salienti della propria carriera.
Si tratta piuttosto della cronaca (ovviamente romanzata) di un’intera giornata della vita del cantautore, in un momento imprecisato tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, durante le lavorazioni dell’ultimo disco “Push the Sky Away”.
A partire dalla sveglia nella sua casa di Brighton, in Inghilterra, dove vive con la moglie Susie Bick e i loro due figli, la telecamera lo segue attraverso una seduta da uno psicanalista, nella quale viene rievocata soprattutto la figura del padre, che insegnava inglese nella scuola del piccolo paese del Victoria dove è cresciuto, e che è stato probabilmente responsabile del suo avvicinamento alla scrittura. Molto intensa, da questo punto di vista, la sequenza in cui racconta di come il genitore, quando lui era ancora un bambino, gli avesse letto le prime pagine di “Lolita” di Nabokov.
C’è poi un pranzo a casa di Warren Ellis, violinista, chitarrista e ormai principale mente creativa dei Bad Seeds, dopo la dipartita di Mick Harvey e Blixa Bargeld. Un pranzo durante il quale si parla di una performance di Nina Simone per cui i Bad Seeds avevano aperto anni prima, e si imparano diverse cose su che cosa voglia dire davvero esibirsi dal vivo.
Si va quindi negli archivi dove sono conservate le testimonianze e le documentazioni di un’intera carriera, e questa è un’interessante occasione per qualche divertente aneddoto sui Birthday Party, la sua prima band importante, e sulla collaborazione con Kylie Minogue (australiana pure lei) sul brano “Where The Wild Roses Grow”. Un momento importante, che ha coinciso con la partecipazione a “Top of The Pops” e a un conseguente aumento di visibilità, nonostante il testo di quella canzone non fosse propriamente radiofonico…
Interessanti le sequenze che vedono Nick Cave in auto, conversare di volta in volta, in una sorta di dimensione onirica, con l’attore Ray Winstone (che ha recitato nel video di “Jubilee Street” e in “The Proposition”, il film di cui Cave ha curato la sceneggiatura), con il quale si affronta il tema dell’immagine che per forza di cose ogni artista ha di sé e dell’inevitabile desiderio di essere affermati; Blixa Bargeld, che spiega le ragioni del suo abbandono, all’indomani dell’uscita di “Nocturama” e la stessa Kylie Minogue, che rievoca le sensazioni del primo concerto dei Bad Seeds a cui ha assistito.
In mezzo, le immagini che ritraggono lui e la band impegnati nella scrittura e nelle prove del nuovo disco. Sono questi gli unici momenti (non molti, in verità) in cui è la musica ad essere protagonista ed è davvero emozionante vedere Nick Cave provare i testi al piano, o cercare melodie sui loop tirati fuori da Warren Ellis. Tra le sequenze più interessanti, vi sono senza dubbio una versione integrale di “Higgs Boson Blues”, diversa da quella poi finita sul disco, un accenno alla outtake “Give Us a Kiss” e le registrazioni del coro di bambini su “Push the Sky Away”, con Ellis che si improvvisa direttore.
Alla fine della giornata, Nick torna a casa e si mette comodamente sul divano assieme ai suoi figli, mangiando pizza e ridendo davanti a un programma tv.
E non potevano mancare neppure delle incursioni rapide negli show dei Bad Seeds: un’infuocata versione di “Stagger Lee”, preziosa per capire il modo profondamente viscerale con cui il cantante vive il concerto e soprattutto il suo rapporto con le prime file. E poi qualche sequenza di una delle prime presentazioni live dell’album, all’Opera House di Sydney. Proprio da qui viene estratta quella meraviglia di “Jubilee Street”, col suo impressionante crescendo finale. Un brano che incarna alla perfezione, per musica e testo, quello che l’artista australiano è adesso e che mi aveva già lasciato a bocca aperta quando gliela avevo sentita eseguire a Milano, lo scorso novembre.
Non un film, dunque, ma neppure un classico documentario; piuttosto, un viaggio intimo e profondamente coinvolgente nella dimensione umana ed artistica di uno dei più grandi autori di canzoni degli ultimi trent’anni.
Un viaggio che tutti possono affrontare, ma che non parte dall’inizio e che non si svolge in maniera lineare, col rischio dunque che risulti un po’ ostico per chi non avesse una grande dimestichezza con la sua musica e la sua carriera.
Se ci si fida e ci si fa trascinare, però, si verrà ampiamente ripagati: ne emerge un ritratto tenero, sincero e a tratti commovente di un uomo che ha raggiunto il successo presto, partecipando, coi Birthday Party, ad uno dei momenti più decisivi della storia del rock europeo. Un adolescente profondamente segnato dalla morte improvvisa del padre, e che forse anche per questo è scivolato in profondità negli abissi della droga e che, anche grazie all’incontro con la moglie Susie, ha trovato la forza di rialzarsi, di riprendere in mano la propria vita e di continuare a scrivere ad un livello che ben pochi hanno saputo raggiungere.
Ed è proprio questo a colpire maggiormente: il fatto che il Nick Cave del 2014 sia un uomo che ha trovato il suo equilibrio, che ha una sua solidità anche al di fuori della musica, ma che è nello stesso tempo consapevole che la musica sia una dimensione fondamentale nella sua esistenza, che il fatto di essere un songwriter è ciò che lo definisce meglio di ogni altra cosa.
Lo avevamo già capito l’anno scorso, quando la bellezza e la verità del suo ultimo disco era riuscita a spazzare via una manciata di prove in studio scialbe e prettamente di routine. Ma è ancora più chiaro adesso, osservandolo in azione sul grande schermo mentre, senza essere minimamente effettato, racconta i misteri che si nascondono dietro la scrittura di un testo, o del modo non sempre lineare di far convivere uomo e personaggio.
Da questo punto di vista, le confessioni a cui il “Re inchiostro” si abbandona sono senza dubbio da ascoltare, riascoltare, annotare e studiare: un vero manifesto di teoria letteraria che darà abbondante materiale ai fan che lo seguono da anni e che vogliono conoscerlo più a fondo. Il tutto è poi rigorosamente narrato dalla sua voce, senza un doppiaggio che snaturi il tutto e con l’aiuto dei sottotitoli, che vengono in aiuto a chi non avesse una grande dimestichezza con la lingua inglese.
Un film imprescindibile, dunque, che non vediamo l’ora di rivedere con calma in DVD e che, se un difetto bisogna per forza trovargli, sarebbe quello di aver aumentato la delusione per il fatto che il suo imminente tour europeo, questa volta non toccherà l’Italia. Ci rifaremo l’anno prossimo, si spera…