L’Infiltrato Speciale del Sussidiario al “Fidelio” di Sant’Ambrogio ha alle spalle quattordici prime alla Scala: non quaranta, come ha voluto puntigliosamente avvertire Paolo Isotta, stamattina sul Corriere della Sera, in calce alla sua stroncatura della serata di ieri. Chi qui annota (e ne avrebbe fatto a meno) è un semplice “amateur”, non uno dei maggiori critici-musicologi italiani odierni. Proprio per questo l’amateur è rimasto deluso e amareggiati: di Isotta, non del “Fidelio” 2014.



Se un uomo di cultura – cultura iper-classica, di radici europee in quanto mediterranee – della levatura di Isotta si premura nella chiusa di far valere l’anzianità di servizio – la “quantità” di anni, presenze, articoli, ecc. – ammette per primo che quanto ha scritto nelle righe precedenti non sta in piedi da solo. Riconosce che – Isotta ci perdonerà ma “ha cominciato lui”, direbbero al ginnasio – ha recensito l’ultima prima di Daniel Barenboim (e probabilmente anche del neo-sovrintendente Alexander Pereira) sulla scia di una “bitterness” che dura da molti anni fra Isotta e la Scala, nonostante l’estenuata mediazione del Corriere di Ferruccio DeBortoli. Come minimo lui stesso finisce per attribuire al suo lettore un “mal penser” che lui stesso sospetta essere in fondo suo.



I fatti sono tutti noti: Isotta da anni non risparmia più una sola serata al Piermarini, sia essa lirica o sinfonica. Un “vedovo inconsolabile” – il più illustre – della lunga e gloriosa stagione di Riccardo Muti? Forse, chissà. Di sicuro è accaduto solo che al critico la Scala ha finito per ritirare l’accredito. Il resto – tutto ire e veleni – è cronaca: fino all’acre commento dettato ieri sera al Corriere appena dopo i 12 minuti di applausi-saluto-omaggio a Barenboim. Al quale è andata non più di una sufficienza di stima: ma non senza la consueta punzecchiatura sulla “lentezza” della conduzione (eufemismo tecnico di norma usato per connotare una direzione non sicurissima di se stessa).



Le voci? Tutte sbagliate, tutte da rifare (o quasi: per Isotta si è salvato solo Kwangchul Youn, Rocco). Ma è soprattutto la regia-allestimento curata dalla britannica Deborah Warner a finire sotto i colpi di penna di Isotta. Furiosi e icastici (“La peggior regia italiana vale sempre di più della migliore regia non italiana”). Ma – ancora una volta – un po’ “fessi” al suono: esagerati, risentiti, “on a personal (not professional) basis”.

Pereira – già sul piede di partenza – ha certamente voluto lasciare il suo segno a Sant’Ambrogio con una messinscena in puro stile salisburghese: stretta e intenzionale contemporaneizzazione dell’opera, forma e sostanza. Ma Isotta cosa s’aspettava: che in omaggio alla sua presenza in platea un Arrigo Sacchi del prodotto lirico rinunciasse al pressing alto e schierasse catenaccio, stopper e libero anni ‘60?

Questo frettolosamente annotato – dall’amateur della lirica e del giornalismo musicale – Isotta resta Isotta e continueremo a leggerlo (almeno per ora). Ma certamente, non compreremo il suo “Le virtù dell’elefante”, uno zibaldone di retroscena più maldicenti che divertenti che – si capisce bene e non è né colpa né scandalo – l’autore si augura diventi un best-seller, parlandone praticamente ogni giorno e ovunque. Ne ha scritto – in controluce ma chiaramente – anche nella recensione della prima della Scala: sì, sono io quell’Isotta, massì, divertiamoci a tirare uova sui ricchi e potenti che di lirica non capiscono niente, ecc. Come fece quella volta Mario Capanna con i Vips di Sant’Ambrogio nel ‘67: ma con un gesto, in fondo, molto più autentico della recensione di Isotta 47 anni dopo. A un “Fidelio” messo in scena (anche) come specchio di una crisi economica e morale che rende tutti meno liberi. Ma per un narciso nietschian-wagneriano-partenopeo il rischio in agguato è sempre quello di ritrovarsi rinoceronte cieco in cristallerie (la Scala, il Corriere, Milano) che c’erano prima e ci saranno anche dopo che Isotta avrà celebrato le 50 o 60 prime.