Di solito i dischi “di genere” hanno un problema: si fanno sentire sempre e solo dagli stessi quattro gatti (detto con rispetto) ed abitualmente dopo i primi 45 secondi sono un pastone consequenziale di cose già sapute. Nell’ambito del blues la cosa è un classico, che solo gli incalliti (purtroppo come chi scrive) superano con divertita nonchalance accettando la millesima versione di Sweet home Chicago e Crossroads. Nell’ambito del blues e del rock-blues interpretato da chitarristi puri, il vizio raggiunge vette insuperabili: riferimenti e citazioni a bizzeffe (da Stevie Ray Vaughan a BB King, da Eric Clapton a Buddy Guy, da Albert King al leggendario Robert Johnson), variazioni più o meno costanti sulle solite 12battute, influenze soul-country-funky più o meno marcate.
Nell’ambito ancor più di nicchia dei bluesman italiani questo insieme di vizi si intreccia con un senso ancestrale di sproporzione e di minorità antropologica: indossando pelle bianca e non essendo nati a Chicago o a Clarksdale, questi musicisti devono dare un senso alla propria esistenza musicale mostrando (soprattutto agli organizzatori dei festival di settore) di avere un’anima nera, quando invece dovrebbe essere sufficiente mostrare di saper fare della buona musica (in fin dei conti nella Chicago all star band del locale di Buddy Guy ci sono tre bianchi su sette elementi). Insomma, per farla breve, già il blues è prodotto di nicchia in Italia, ma ogni tanto si fa di tutto per farlo rimanere nascosto negli armadi.
Per fortuna qualcuno – ogni tanto – ragiona diversamente. E’ il caso illuminante di Guitar Ray con i suoi Gamblers, italianissimo chitarrista blues di provenienza ligure (ma di origini campane), che con Photograph è arrivato a produrre il suo quinto album (anche se all’attivo, tra partecipazioni internazionali e live, ne ha almeno il doppio) centrando un prodotto di altissima qualità e che per contenuti musicali, influenze, idee e ispirazioni potrebbe essere benissimo un disco amato anche da chi si nutre di XFactor, di Virgin Radio o degli MtvAwards. La vastità delle idee sciorinate sul nuovo Cd di questo bluesman è spiazzante: nei dieci titoli del disco, cui collabora una vecchia gloria come Fabio Treves, si naviga nel rock-blues (I’m going, I’m going, Give it up) nelle influenze della Louisiana (Mary Lou), negli sprazzi di soul blues (Everybody wants to win) e del rock che strizza l’occhio al funky (She’s mighty fine).
Due capolavori di livello assoluto definiscono gli antipodi di questa visione musicale vasta e poliedrica: He thinks of you e You’re the One. La prima è una ballad lentissima che si svolge attorno all’umana fatica di una persona particolarmente cara all’autore, sorretta da un hammond convincente come brezza che avvolge e lega storie e persone, un brano che si colloca a suo modo in un mood classicamente blues. La seconda, al contrario, è una lovesong insolita e stimolante impreziosita da un arrangiamento cameristico creato dal Gnu Quartet (quattro giovani di background classico: Francesca Rapetti al flauto, Roberto Izzo al violino, Stefano Cabrera al violoncello, Raffaele Rebaudengo, viola; hanno già collaborato con – tra gli altri – Afterhours e la Crus). Ecco i due opposti: un blues raffinatissimo interpretato con sensibilità estrema e un brano riletto con sonorità quasi estranee a chi ama il sound di Chicago.
Nel mezzo di tutto questo c’è la chitarra di Guitar Ray che – stranissimamente – non fa la parte del leone. Per carità: la sei corde per lo più elettrica c’è, e si sente, ma non è mai l’obiettivo prioritario di questo bluesman nostrano. Non c’è il solito masochismo del guitar-king, non si cade nell’errore della standardizzazione, del velocismo o del citazionismo: qui sono le canzoni a dominare, sono i blues a prendersi la scena, e quindi è il prodotto finale a vincere, ottimamente confezionato da Paul Reddick (molti lo ricorderanno con i Sidemen), meravigliosamente suonato e quindi capace di farsi ascoltare urbi et orbi.
Solitamente i chitarristi blues si fanno prendere la mano dalla voglia di dimostrare qualcosa, mentre questo Photograph – disco fortemente autobiografico e ricco di racconti personali – suggerisce qualcosa di diverso. Forse c’è soprattutto la convinzione che era il momento di fare un album internazionale. Cosa ha spinto Guitar Ray ad evitare le ovvietà per puntare su un potente e convincente prodotto di rock-blues adulto e maturo? “Dopo tanto anni di concerti e collaborazioni, ho sentito un grande desiderio di rinnovamento”, ci ha raccontato il chitarrista ligure, “Voglio fare un paragone con il momento storico e sociale che stiamo vivendo: siamo in un momento di profonda e dolorosa crisi e di mancanza di sguardo al futuro. Ecco: di fronte al presente mio e di quello che vedo intorno, ho sentito il bisogno di rinnovarmi. Voglio essere me stesso cambiando, rinascendo”. Questo “rinascere” – è naturale – non vuol dire gettare alle ortiche quello che uno ha fatto per decenni… “No anzi, è più che altro un discorso di maturità artistica. Cosa mi fa arrivare in modo più diretto alla gente? Certo: se porti sul palco la cover è difficile che tu riesca ad essere te stesso. Certo puoi citare BBKing o Robert Cray, ma è più importante che tu riesca a ritrovarti umanamente e artisticamente. Un musicista non deve dimostrare nulla a nessuno, ma mettersi a nudo e scommettere che questa sincerità incontri l’emozione e la sincerità dell’ascoltatore”.
Nulla dimostrare, certo. Però qualche incerto o incredulo da convincere c’è per chi fa blues nella penisola: una storia lunga e gloriosa (che parte da Treves, Ciotti e Toffoletti) ed ottimi interpreti contemporaneei (si pensi ad esempio ai nomi di Bonfanti, Pugno, Marsico, Crivellaro, Morbioli, Poggi) eppure nonostante tutto questo l’Italia del blues è un paese che non è mai decollato nei gusti e nei botteghini, come mai? “I bluesman italiani sono ottimi e apprezzati nel mondo”, è la riflessione del musicista ligure”, “ma purtroppo non sono a fondo valutati dai promoter di casa nostra. Io, ma anche gli altri bei nomi del blues italiano potrebbero citare analoghe bellissime esperienze, ho collaborazioni con Otis Grand, con Sugar Ray, con Big Pete Pearson eppure tutto questo non ci aiuta a farci conoscere di più e a diventare headliner nei festival nostrani, dove si continua a preferire il nome di richiamo proveniente dagli States. E invece all’estero gli italiani sono spesso nomi guida dei cartelloni delle migliori manifestazioni blues. Chissà se verrà il tempo anche per noi…”.
Lasciamo il futuro agli oracoli ed occupiamo del presente (con gli show immediatamente in agenda: 10 febbraio, Memo Restaurant, Milano; 14 febbraio, Como; 22 febbraio, Londra; 1 marzo, Lodi; 6 marzo, Bologna). Guitar Ray è in circolazione da qualche decennio (in realtà la sua vita artistica inizia a metà degli anni ’70, quando il sedicenne Renato già suonava la chitarra elettrica nelle balere, nelle discoteche e nelle orchestre di liscio della riviera ligure), ma oggi dove vuole arrivare con questo disco così ricco e convincente? “Diciamo che voglio arrivare più lontano che posso”, è la confessione del musicista: “Nelle prossime settimane ci esibiremo a Londra, in concerto, poi in giro per l’Italia, mentre questa estate sarò con la mia band in tour per tre settimane con Big Pete Pearson ed in settembre faremo la tournèe europea con Paul Reddick”. Attività abbastanza frenetica, dunque. Come ai tempi d’oro, come quando il rock e il blues era roba autentica e fresca, immediata e romantica. A cinquantun anni, si può ancora accarezzare un sogno nascosto nel cassetto? “Uno solo”, ci confessa Guitar Ray: “suonare a fianco di BB King, il più grande di tutti”.