“Come si fa a morire di malinconia per una terra che non è più mia? Che male fa, aver lasciato il mio cuore dall’altra parte del mare”. Così il ritornello di “Magazzino 18”, canzone composta lo scorso anno dal cantautore romano Simone Cristicchi, e che è ora tema portante dello spettacolo teatrale omonimo scritto e interpretato dallo stesso artista.
Il 10 febbraio è stato il giorno del Ricordo per le vittime dell’esodo Giuliano-Dalmata, una ricorrenza che è stata introdotta solo dieci anni fa e che viene ancora fin troppo spesso contrapposta al più noto e celebrato “Giorno della Memoria”. Le vittime, specie quelle di vicende assurde come quelle delle ultime due guerre, dovrebbero meritare tutte lo stesso commosso silenzio. Eppure, come ormai prerogativa della nostra tormentata vicenda storiografica, i morti delle foibe, e più in generale tutti coloro che hanno subito l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia al termine della Seconda guerra mondiale, vengono ancora considerati da più parti come caduti di serie B, oscurati dai ben più celebri “martiri” dell’antifascismo.
E se nel corso degli ultimi anni è un po’ più di dominio pubblico quel che successe a partire dal 1 maggio del 1945 (ma in certe zone anche prima), quando le truppe jugoslave del maresciallo Tito occuparono Trieste dando inizio di fatto allo sterminio e alla cacciata della popolazione italiana residente in quelle zone, non è ancora del tutto scomparsa la convinzione di vedere tutto questo complesso di eventi come una reazione giustificata alle violenze dell’occupazione italo-fascista della Jugoslavia. Una tesi un po’ troppo limitata, che non tiene conto del progetto nazionalista di Josif Broz di creare una Jugoslavia totalmente libera dalle altre popolazioni.
Se in futuro qualche cosa si muoverà potrebbe, anche essere merito di “Magazzino 18”, che Simone Cristicchi sta portando in giro da qualche mese a questa parte. Siamo andati a vederlo a Bergamo, incuriositi dalle recensioni e dalle inevitabili polemiche “anti revisioniste” che sono sfociate in una antipatica contestazione a Scandicci, in occasione di una delle ultime rappresentazioni.
Il Magazzino 18 si trova nel porto di Trieste ed è un enorme deposito (duemila metri quadri) dove sono contenuti gli effetti personali che gli esuli Giuliano-Dalmati non sono riusciti a portare con sè durante la loro fuga dalle milizie titine.
La vicenda parte proprio da qui, dal dott. Persichetti, un archivista romano chiamato dal ministero degli Interni per fare un inventario completo delle masserizie presenti. Partendo da una totale ignoranza delle vicende storiche a cui quegli oggetti sono legati, il simpatico personaggio interpretato dallo stesso Cristicchi (il quale, fatta eccezione per un gruppo di bambini che lo sostengono in alcune canzoni, è sempre da solo sul palco) si imbatte per la prima volta nella parola “Esodo” (“Conosco solo quello della Bibbia”, dice in una delle battute iniziali) e da qui prende via via confidenza con le vicende tragiche di quelle terre dove, dietro i nomi cambiati, “anche le pietre parlano italiano”. In questo suo cammino è aiutato dallo “spirito delle masserizie”, l’altro personaggio dello spettacolo, a cui Cristicchi affida il lato più drammatico e toccante della sua recitazione. Si tratta di una sorta di figura metaforica che incarna tutto quanto è stato vissuto e patito da quelle popolazioni dal 1945 fino al 1954, anno in cui è stato ratificato definitivamente il trattato che assegnava l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia.
Lo spirito rievoca così alcune delle storie più drammatiche di questi anni, consumate (triste paradosso) in luoghi meravigliosi, a pochi passi dalle nostre coste, dove una vacanza di una settimana costa meno di 400 euro, come fa notare Persichetti a un certo punto. Apprendiamo così di Domenico, 27 anni, che lavorava come postino e che è stato gettato vivo in una foiba assieme a molti altri compagni. O di Irma Cossetto, 23 anni, studentessa di lettere, la cui unica colpa era di essere la figlia di un dirigente locale del Partito Fascista. Anche lei gettata viva nelle cavità rocciose, dopo essere stata ripetutamente violentata. O ancora della strage di Vergarolla, nei pressi di Pola, quando, il 18 agosto del 1946, furono innescate nove tonnellate di esplosivo che uccisero più di ottanta persone. Spicca, in questo frangente, la figura enorme di Geppino Micheletti, medico nel vicino ospedale, che pur avendo appresso della morte dei suoi due figli di sei e nove anni, anch’essi presenti sulla spiaggia, non si mosse dal suo posto per prestare soccorso ai feriti. Al termine dell’emergenza se ne andò, con la motivazione che “non voglio trovarmi a curare un giorno gli assassini dei miei figli”. Sono tutti morti di cui bisogna avere ancora paura, dice lo spettro, perché continuano a morire ancora oggi in un’altra guerra, quella dei numeri. Allusione al fatto che tuttora non si conosce l’esatto ammontare delle vittime dell’esodo e le cifre vengono spesso sgonfiate in maniera strumentale da chi cerca di negare o sminuire i fatti.
Più si procede nella narrazione (piacevolmente inframmezzata da composizioni originali dello stesso Cristicchi, eseguite dal vivo con l’ausilio di una base orchestrale) e più gli oggetti del magazzino acquistano un volto, diventando così “soggetti”.
E proprio a questo punto si introduce la grande tentazione: perché archiviare, in fin dei conti, è anche incasellare, spiegare, definire. Quindi, giocoforza, è anche un po’ ridurre. “Persichetti archivia tutto” è lo slogan che spesso e volentieri viene ripetuto. Ma archiviare, in questo caso, può diventare pericoloso. Come si può cercare di spiegare una tragedia del genere? Chi prenderà su di sè il dolore di tutti questi uomini, donne, bambini? E le sofferenze senza nome di chi è rimasto, perché troppo vecchio per partire o perché, semplicemente, non voleva abbandonare la propria terra, non voleva dare adito alle accuse infamanti di chi li spingeva alla fuga?
Ma anche, come si possono archiviare vicende al limite dell’assurdo come quella del cosiddetto controesodo dei Monfalconesi? Tornati in Jugoslavia sull’onda di una entusiastica adesione alla costruzione del comunismo, furono deportati in massa dopo che, in seguito alla rottura di Tito con Stalin, nel 1948, vennero accusati, in quanto italiani, di essere strumenti del potere sovietico.
Di fronte a tutto questo, ogni pretesa archivistica cade miseramente. E allora Persichetti/Cristicchi compie l’unico gesto ragionevole, in questo frangente, di fronte a questa realtà di orrori che contengono altri orrori, come nelle matrioske che, non a caso, vengono evocate in una delle ultime battute.
C’è una signora Biasiol, che fa capolino di tanto in tanto. Aveva solo tre anni quando ha dovuto abbandonare la terra natia e non ha più avuto notizia degli effetti personali del padre. Per anni ha scritto al ministero degli Interni, ovviamente senza mai ricevere risposta. Ora Persichetti, nell’ultima scena del dramma, si siede al tavolino, di fronte alla macchina da scrivere, e risponde alla donna che potrà trovare quello che cerca proprio lì, nel porto vecchio di Trieste, in quell’edificio denominato Magazzino 18.
“Sono venuto a cercare mio padre in una specie di cimitero, masserizie abbandonate e mille facce in bianco e nero. Tracce di gente spazzata via da un uragano del destino. Quel che rimane di un esodo ora riposa in questo magazzino”. Un magazzino che, come ho modo di apprendere successivamente, è sempre stato chiuso al pubblico e non si può visitare in alcun modo. C’è da augurarsi che le cose cambino presto. Sarà anche una riflessione retorica, ma se l’Italia un giorno potrà ricominciare da capo, sarà proprio quando riuscirà ad abbandonare la dimensione parziale e ideologica della propria memoria storica. Per ora, grazie a Simone Cristicchi per il tentativo che ha voluto fare.