Il vostro ‘chroniqueur’ , al pari peraltro di quelli di quasi tutte le grandi testate nazionali, trascura i 27 ‘teatri di tradizione’ e si concentra sulle grandi fondazioni liriche. I ‘teatri di tradizioni’, così chiamati dalla normativa, sono localizzati in gran misura in città d’arte oggi però con una popolazione di non grandi dimensioni e non tali da sostenere ‘stagioni’ con numerose rappresentazione. Si tratta spesso di veri e propri gioielli di architettura, con 800-1000 posti, ideali per una buona acustica senza sforzare le voci. Si collegano sovente in ‘circuiti’ su base regionale – ogni città non può sostenere più di due-tre repliche dello stesso spettacolo-, sono finanziati in gran misura da enti e sponsor locali nonché da contributi statali strettamente collegati al numero delle rappresentazioni – non su base annua come le 13 fondazioni di cui una diecina ha accumulato un debito di oltre 350 milioni di euro ed è corsa ai provvedimenti della ‘legge Bray’ per prestiti agevolati basati su drastici piani di ristrutturazione.
Su questa testata, è stato sottolineato che in questi ultimi anni l’innovazione, nel teatro in musica, si è vista più in teatri di ‘tradizione’ (ad esempio il Massimo Bellini di Catania, l’Alighieri di Ravenna, il Pergolesi di Jesi, il Sociale di Como, il Fraschini di Pavia) che nelle fondazioni liriche. E’ nei teatri ‘di tradizione’ che si sono viste regie innovative, impiego inteso di nuove tecnologie per ridurre i costi, registi e cantanti giovani e talentuosi.
Erano anni che non visitavo il Teatro Verdi di Pisa, parte di un circuito che comprende anche il Teatro Goldoni di Livorno ed il Teatro del Giglio di Lucca. Sono stato spinto da due elementi. L’anno scorso, l’Opera Studio, per la formazione dei giovani ha ottenuto il ‘Premio Abbiati’, ossia l’Oscar della lirica. E’ in programma
“Les contes de Hoffmann” di Jacques Offenbach , opera da me amatissima poco nota in Italia (anche se negli ultimi dieci anni la si è vista a Spoleto, a Roma, a Macerata ed alla Scala). La produzione andrà a Livorno e Lucca nel resto del mese di febbraio ed a Novara in novembre.
“Les contes de Hoffmann” è un lavoro inquietante ancor più che ambiguo che merita attenzione. E’ l’ultima composizione per la scena del maestro dell’operetta francese, che era diventato ricco e famoso grazie al successo di capolavori del teatro leggero (soffuso di satira politica e sociale) quali “Orphée aux Enfers” e “La belle Helène”. E’ anche la prima ed ultima opera vera e propria composta da Offenbach, rimasta mai completata a ragione della sua prematura morte. Più che incompiuta, “Les contes de Hoffmann” è stata lasciata in un’edizione ridotta, e in parte spuria, per le esigenze de l’Opéra Comique, dove ebbe un enorme successo in una versione che, con pochi adattamenti, è stata rappresentata sino alla metà degli Anni Settanta quando, ritrovati alcuni manoscritti, venne approntata l’edizione critica. Quest’ultima risultò di difficile, ove non impossibile, realizzazione scenica a ragione, se non altro, di quella che sarebbe stata la durata. Quindi, le produzioni (in teatro ed in disco) sono di norma varie contaminazioni delle versioni pubblicate dalla fine dell’Ottocento al 1934 con l’edizione critica del 1977. Non si tratta di un problema solo o principalmente filologico in quanto variano interi passaggi ed il peso relativo dei personaggi tanto che ad ogni edizione “Les contes” sembra un’opera nuova. Ma le chiavi di lettura cambiano in misura significativa.
Mentre nelle versioni rappresentante sino alla fine degli Anni Settanta, “Les contes” aveva, nonostante il finale amaro, il tono di un’opera leggera, ove non quasi di un’operetta (almeno sino alla metà del secondo atto), l’edizione critica è apparsa drammatica, con passi cupi e temi demoniaci. Qualcosa di ben diverso, quindi, di un “piccolo Faust” da Terza Repubblica. Un lavoro è tanto più inquietante in quanto può essere presentato e compreso in modi molto differenti.
L’apologo di Hoffmann (pittore, poeta scrittore e musicista della Prussia della prima metà dell’Ottocento), delle sue quattro donne, della musa/ispiratrice di lui innamorata e del mefistofelico deuteragonista (che lo sconfigge ad ogni occasione) viene frequentemente letto come quello dell’incapacità di relazioni vere e di una vita trascorsa in rapporti interinali inconcludenti.. Hoffmann corteggia Stella , soprano di successo, ma mentre lei è impegnata nel “Don Giovanni” di Mozart, si ubriaca di birra nella taverna accanto al teatro e si ricorda delle sue donne precedente: Olimpia- la amò alla follia per accorgersi che era un automa; Antonia, ammalatissima tanto che l’amore la fa perire; Giulietta, affascinante ma essenzialmente una prostituta che vive in un mondo di malaffare. Ciascuna delle tre (pure la bambola) lo tradisce. E al termine del “Don Giovanni”, Stella da un’occhiataccia all’ubriaco e se ne va con un signore elegante.
Si è riportato un vasto sunto dell’opera per indicare quanto complesso sia il lavoro. Su questa testata è stato recensito il 28 luglio 2012 in una produzione del Teatro Nazionale di Monaco di Baviera con grandi voci (Rolando Villazon era il protagonista e in alcune recite Diana Damrau interpretava le quattro protagoniste femminili. Andando al ‘Verdi’ di Pisa mi tremavano i piedi al pensare che un gruppo di giovani osasse tanto.
La scommessa del direttore artistico Marcello Lippi ha avuto pienamente successo. Quali gli ingredienti? La drammaturgia affidata ad un gruppo giovane (Nicola Zorzi, regia; Mauro Tinti, scene; Elena Cicorella costumi; Michele della Mea, luci) che hanno portato l’azione ai primi del Novecento (il secondo atto si svolge in una sala cinematografica dove si proietta un film muto); una scena unica che con un po’ di tendaggi ed un minimo di attrezzeria mostra i vari luoghi della vicenda. La direzione musicale è nelle mani di Guy Condette, maestro concertatore sulla cinquantina specializzato in questo tipo di repertorio. Soprattutto, i cantanti sono giovanissimi , spesso per la prima volta su un palcoscenico. Il protagonista è un ventottenne brasiliano (Max Jota), il deuteragonista maschile è un baritono di 23 anni (Federico Cavarzan), le cinque voci femminili (Madina Serebryakova, Claudia Sasso, Velentina Boi, Marta Leung Kwing Chung) tra i 24 ed i 30 anni. Un piccolo coro davvero in grado di ‘recitar cantando’, un’orchestra di una cooperativa di giovani strumentisti. Tutti formati in cinque ‘laboratori’, ciascuno di una settimana, da giugno a dicembre 2013, prima di iniziare le prove vere e proprie.
Spettacolo delizioso, che coglie a pieno il sapore agrodolce de “Les contes de Hoffmann”.
Veniamo alla bottom line, come dicono i britannici. Tutto compreso (compensi ai solisti, orchestra, coro, scene e costumi) 85.000 euro a recita, rispetto agli oltre 500 milioni a recita che, secondo i maligni, costerebbe ‘Manon Lescaut’ di Puccini nella nuova produzione romana con Riccardo Muti nel podio e la regia affidata a sua figlia Chiara.