Ho sempre avuto un rapporto difficile con la musica di Ivano Fossati. Non l’ho mai amato anzi, spesso mi infastidisce sia per il suo modo di cantare trascinando le consonanti sia per il suo piglio spesso troppo intellettuale. Ho provato ad ascoltare i suoi dischi e, in definitiva, non ce n’è uno che mi piaccia dall’inizio alla fine, nemmeno quelli più incensati dal pubblico – anche se, diciamolo, Fossati è sempre stato più “da nicchie” che “da masse” – o, soprattutto, dalla critica. Lo trovo certamente un ottimo musicista (e d’altronde non potrebbe essere altrimenti per uno che ha inciso un disco come “Good-bye Indiana” in completa solitudine, suonando tutti gli strumenti) ma un compositore cui, troppo spesso, piace crogiolarsi nell’autocompiacimento sia lirico che musicale.
Eppure, se dovessi stilare una classifica delle venti canzoni più belle mai scritte in Italia, almeno quattro canzoni di Ivano Fossati troverebbero tranquillamente posto. Già, perché quando trova la giusta vena d’ispirazione, Fossati tocca vertici di lirismo che pochi altri sanno toccare.
È senza dubbio la corda malinconica, quella che nelle sue canzoni vibra più a fondo, lasciando il segno. Bisogna essere in una particolare disposizione d’animo, per coglierla. Bisogna essere in una posizione d’attesa. Ecco, le grandi canzoni di Ivano Fossati possono essere definite così: “canzoni dell’attesa”. C’è sempre un’inquietudine, una tensione a qualcosa di imponderabile e misterioso, un afflato di nostalgia nelle sue pagine più luminose.
Come ho già detto, ho sempre faticato a comprendere Fossati ma mi sono sempre sforzato (per gran parte della sua opera a tutt’ora con scarsi risultati) a cercare di coglierne la profondità. Ci ho provato per lungo tempo ma senza esito, sino a che non mi sono imbattuto in una serie di versi di una canzone fra le sue più note, Una notte in Italia. I versi erano questi:
È una notte in Italia che vedi,
questo taglio di luna freddo come una lama qualunque
e grande come la nostra fortuna…
È la fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato,
questa notte che corre e il futuro che arriva: chissà se ha fiato.
Quando li ho ascoltati, per la prima volta con attenzione, sono sobbalzato. “La fortuna di vivere adesso questo tempo sbandato” è una frase d’amore per la vita, presa così com’è, con le sue circostanze belle ed avverse, le gioie e le fatiche, che raramente si trova in una canzone. E l’andamento musicale fa da perfetto accompagnamento del testo: un pianoforte che suona accordi sospesi, pieni di grazia, ed una sezione ritmica discreta e dall’andamento sfumato e, ovviamente, notturno. E così, lungo la canzone, scorrono immagini e desideri, da quello di essere amati ed essere capaci ad amare (con tutte le incertezze del caso), al desiderio – che talvolta si fa rimpianto – di trovare una compagnia vera, di persone e di ideali, per la vita. Fino ad arrivare alla fine, nella quale Fossati riprende i cinque versi iniziali introducendo però una piccola variazione, la cui portata è però smisurata. “Questa notte che corre e il futuro che viene a darci fiato”. Nonostante tutto, nonostante il “tempo sbandato”, la centrifuga della vita, in fondo al cuore rimane un senso d’attesa ed un desiderio sterminato per ciò che la vita, istante per istante ha da offrire.
Così, piano piano, ascoltando con pazienza i suoi dischi, fra le tante canzoni che mi lasciano indifferente, emergono altre gemme incommensurabili. Una di queste è C’è tempo, contenuta nell’album “Lampo Viaggiatore” del 2003, che riprende e sviluppa il tema di Una notte in Italia e che vale la pena ascoltare dall’inizio alla fine.
Già l’inizio è premonitore: un pianoforte introduce, con un arpeggio su un accordo aperto, una fisarmonica, che sviluppa un tema di poche note, essenziale, che tornerà ciclicamente nel corso della canzone. Poi, nella ripetizione del tema, entra un’orchestra intera a sostenere la frase musicale, fin quando tutto si ferma e subentra la voce di Fossati che inizia recitando con voce grave:
Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno che hai voglia ad aspettare,
un tempo sognato che viene di notte
e un altro di giorno teso
come un lino a sventolare.
C’è un tempo negato e uno segreto,
un tempo distante che è roba degli altri,
un momento che era meglio partire
e quella volta che noi due era meglio parlarci
Echi della Bibbia e, in particolare del libro dell’Ecclesiaste fanno da sfondo a tutto. Siamo nel momento in cui ci si guarda indietro, in uno di quei momenti in cui si fanno i conti con se stessi, in cui si guardano i distacchi e si ripensa a come tante volte sia semplice complicarsi la vita (e chi non ha mai avuto un momento in cui “noi due era meglio parlarci” e, magari, scoprire che le cose erano più semplici di quanto tu le immaginassi?). Poi, il recitato comincia a lasciare spazio ad un barlume di melodia, appena accennata:
C’è un tempo perfetto per fare silenzio
guardare il passaggio del sole d’estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando
è l’ora muta delle fate
Il tempo del silenzio, il valore del silenzio, l’importanza di fermarsi e guardare, con lo stupore di bambini, le cose intorno. E subito, la melodia si apre, sempre accompagnata dal solo pianoforte:
C’è un giorno che ci siamo perduti
come smarrire un anello in un prato
e c’era tutto un programma futuro
che non abbiamo avverato.
È tempo che sfugge, niente paura
che prima o poi ci riprende
perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo
per questo mare infinito di gente
L’imprevisto, la perdita, si affaccia sulla scena e appaiono davanti agli occhi, come avveniva in Una notte in Italia tutte le immagini del passato, tutti i progetti sfumati, tutti là di fronte in una volta sola. Eppure, qualcosa arriva sempre a cambiare la scena, c’è qualcosa che “ci riprende”, ed anche la melodia sembra acquietarsi, lasciando quindi spazio al tema iniziale, che si ripropone con la fisarmonica e l’orchestra che stavolta lo sviluppano all’unisono.
Poi la scena cambia di improvviso, cambia la tonalità e lo schema melodico, entra una batteria che scandisce un ritmo quasi di marcia e la voce non è più sostenuta soltanto dal pianoforte ma anche dagli archi, che la accompagnano.
Dio, è proprio tanto che piove
e da un anno non torno,
da mezz’ora sono qui arruffato
dentro una sala d’aspetto
di un tram che non viene;
non essere gelosa di me,
della mia vita,
non essere gelosa di me,
non essere mai gelosa di me
Il protagonista si è spostato da un luogo della mente – il luogo del ricordo – ad un luogo fisico, ed aspetta un tram che non arriva. Non si sa perché non torni da tanto, non si sa nemmeno se sta andando via da lei o se le stia andando incontro. Tutto è lasciato all’ascoltatore, eppure il canto offre perfettamente l’immagine di un uomo inquieto e implorante, che tuttavia nella sua implorazione sembra trovare una forma di riposo. Così, il canto ritorna ad appoggiarsi sulla melodia iniziale, seppure alzata di tono e resa quindi più urgente ed incalzante, anche grazie alle percussioni ed agli archi:
C’è un tempo d’aspetto, come dicevo,
qualcosa di buono che verrà
un attimo fotografato, dipinto, segnato
e quello dopo perduto via
senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata
la sua fotografia
Ancora, ritorna l’attesa di un “qualcosa di buono”, fosse anche soltanto un attimo, ma che va vissuto fino in fondo, senza pensare a quello dopo, seppure con la coscienza che ci saranno altri tempi duri, da voler dimenticare.
Dopo l’esplosione, poi, Fossati ritorna ad abbassare la tonalità e a cantare in maniera più dimessa, riprendendo comunque la melodia base della canzone, questa volta senza preavviso e senza inframezzare le due strofe (se di strofe, così irregolari, si può parlare) col tema iniziale. Pare quasi che il narratore, nella sua ricerca abbia trovato una sorta di pace.
C’è un tempo bellissimo tutto sudato,
una stagione ribelle,
l’istante in cui scocca l’unica freccia
che arriva alla volta celeste
e trafigge le stelle,
è un giorno che tutta la gente
si tende la mano,
è il medesimo istante per tutti
che sarà benedetto, io credo
da molto lontano
è il tempo che è finalmente
o quando ci si capisce
un tempo in cui mi vedrai
accanto a te nuovamente
mano alla mano
che buffi saremo
se non ci avranno nemmeno
avvisato
Ci sarà un tempo, pare dire l’autore, in cui tutto tornerà al suo giusto posto, non è dato sapere se in questa vita o no, ma ci sarà un posto simile ed un tempo così sarà “benedetto da molto lontano”. E quel momento di liberazione assoluta potrebbe venire all’improvviso, eppure il protagonista ne è certo. Anche la melodia è finalmente piana, tutti gli strumenti suonano insieme e le variazioni armoniche degli accordi, così frequenti nelle strofe precedenti, si diradano e diventano funzionali al canto. Dopodiché, tutto ritorna pressoché come all’inizio (stessa tonalità, seppure la melodia si sviluppi su note più alte) solo voce e pianoforte, in una chiosa rivelatrice.
Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno più lungo per aspettare
io dico che c’era un tempo sognato
che bisognava sognare
L’attesa può trovare una risposta soltanto laddove quella risposta si desideri e, di conseguenza, il desiderio (“L’unico motore che muove il mondo”, lo definiva Gaber, un artista che negli ultimi anni, complice il medesimo produttore, è stato molto vicino ad Ivano Fossati) permette all’uomo di scoprire la vita, le cose e avere la certezza di quella benedizione di cui ha bisogno.
Per finire, il tema iniziale si ripropone nuovamente ma stavolta, dopo un istante di attesa, si chiude definitivamente su un accordo maggiore, in un quieto rallentando che mette fine alla canzone.
E di fronte a canzoni così è impossibile non commuoversi.
(Gabriele Gatto)