Antonella Ruggiero ha sempre associato della musica di qualità a testi apparentemente semplici. Quasi sempre le sue canzoni ci hanno parlato d’amore, di un lui e di una lei che si cercavano e si volevano. In Quando balliamo in particolare l’amore viene vissuto positivamente, non è la canzone struggente che fa leva sull’emotività negativa della privazione sentimentale. Finalmente qualcuno, presumibilmente una lei, che è felice del proprio amore. Scrivo presumibilmente perché la canzone può essere cantata sia da una donna che da un uomo senza cambiare una sola parola, un singolo pronome, un genere. In questo testo viene descritto l’amore assoluto, asessuato, che può essere cantato da ogni essere vivente ed esteso a tutto il creato. La prima strofa ci fa entrare letteralmente nel nucleo di questo sentimento:
Nel cuore più vivo della verità
Intenso è il mio pensiero
Socchiusa negli occhi scintilla
L’immagine nitida, tu
Sei questo respiro infinito
Le parole cuore, pensiero, socchiusa, respiro rimandano a un dentro, a un luogo chiuso e inaccessibile, lo scrigno che custodisce la verità e l’immagine di un tu che si manifesta nello splendore della scintilla che solo un amante può avere. E’ una luce che brilla nel buio di un’intimità che si apre all’incommensurabile e all’intangibile che però diventa, nella seconda strofa, materiale, si colloca all’ “esterno” dove tutti possono vederlo:
Di pioggia dai vetri giù in rivoli
Passa tutto scivola se
La tua mano mi attende
Tutto passa e va via
La pioggia qui è funzionale, non passa per lavare ma è foriera di pensieri e problemi, è intesa come uno strumento che rende importante quella mano salvifica, il supporto per eccellenza anche nei detti e nei proverbi. Se la mano non c’è (e non c’è la persona cui appartiene) difficile sopportare, farsi scivolare la pesantezza della realtà. La strofa successiva è il trionfo dell’autodeterminazione applicata all’amore:
Io voglio che tu sia
Tra le più belle cose
Tra le più belle cose
M’innamorerò di te
Tutti i santi giorni che
Si fa la sera e torno a casa
In un momento in cui i rapporti sentimentali durano qualche stagione, suona quasi demodé chi canta, anche nella finzione di un festival canoro, dell’impegno quotidiano a rimanere lì, nella sacralità del giorno dopo giorno, della risolutezza di volere che qualcuno faccia parte dell’estetica della propria vita per risollevarsi dalla fatica che si fa a conservare, a preservare. Ma questo sforzo è compensato. Nella moltitudine ci si riconosce con lo sguardo, si distingue la propria unicità proprio quando i corpi combaciano, ballando. Si vede la luce, che pure è sempre stata là, perché solo essendo un tutt’uno si vincono le tenebre, l’oscurità di una vita vissuta senza riconoscersi:
Ci guardiamo complici
Tra la gente gli unici
Quando balliamo insieme io e te
La luce scoperta in un battito
Le ombre… si dissolvono
Il resto della canzone riprende il ritornello con una piccola variante (Ma voglio siano tue/Le mie più belle cose) che non fa altro che rinforzare l’idea di inclusione totale nella propria vita di una persona con la quale si coincide nei sentimenti, nei gesti e nel respiro. Un atto di generosità di sé, del corpo e dei sentimenti, ma anche del resto, di quanto appartiene nella materialità di una vita che si condivide.
Non è un mistero che il Festival di Sanremo è per definizione un programma nazional-popolare, con buona pace degli intellettuali che invece se lo devono sorbire, se non altro per criticarlo. Anche le case discografiche hanno un Marketing, le canzoni sono dei prodotti che devono principalmente vendere, proprio come le merendine, facendo leva non su un bisogno primario ma sull’evocazione. In un Paese dove le selezioni per il Grande Fratello hanno più affluenza in un giorno di una mostra al museo in qualche mese, bisogna solo chiarirsi su cosa evocare.