La sua presenza all’imminente festival di Sanremo ha destato non poche sorprese e perplessità, soprattutto tra chi lo ha conosciuto e lo ricorda come uno dei più grandi cantautori del secolo scorso. In effetti l’artista si fa vedere poco, centellina i concerti e le apparizioni, evita gli eventi mondani, protegge la sua vita e la sua privacy mantenendo quel distacco che ormai caratterizza la sua esistenza – pubblica e privata – da quasi quarant’anni a questa parte. Quale sia stata l’opera di convincimento che ha permesso a Fazio di poterlo annoverare tra gli ospiti della manifestazione canora più famosa d’Italia rimane un mistero, anche se il cinismo dei media ha pensato subito a un assegno a sei cifre, e non è da escludere che sia davvero così. Sappiamo però che il famoso conduttore aveva già tentato l’impresa qualche anno fa invitandolo presso gli studi di RaiTre, ma allora il progetto non era andato a buon fine.



Ma chi è Cat Stevens? E chi è Yusuf Islam?

I giovani – ma i giovani ancora guardano Sanremo? – non sapranno senz’altro quale identità si celi dietro un volto all’apparenza occidentale ma abbastanza ambiguo, presi come sono dagli eroi del momento e dalla musica liquida che poco ha a che vedere con uno stile che, soprattutto agli albori dei settanta, stregò i giradischi di mezzo mondo grazie a melodie straordinarie e tuttora immuni alle intemperie del tempo. I meno giovani ne hanno sentito parlare e conoscono almeno un paio di canzoni, quelli che invece giovani non sono più lo hanno spesso amato e continuano a farlo.



Uno dei motivi – diciamo il motivo principale, o meglio, l’unico – per cui il suo nome non è annoverato tra i più grandi di sempre è la sua “scomparsa”. Perché dopo il 1978 Cat Stevens, il cantautore dei sentimenti e delle magie della natura, scompare dalla scena facendo perdere le sue tracce. Abbandona la musica e gli strumenti, cambiando addirittura il suo nome. Diventa Yusuf Islam, un omaggio alla nuova religione cui si è convertito: una scelta forte, spiazzante, anche se non del tutto inaspettata, soprattutto nella natia Inghilterra.

In verità, l’anagrafe ci rivela che il nome di battesimo è Steven Demetre Georgiou, nato a Londra il 21 luglio 1948, padre greco e madre di origini svedesi. Un ristorante nel West End, la Londra che si sta facendo swingin’, l’aria frizzante e traboccante cultura, una sensibilità non comune e il gioco è fatto: un’amica di scuola gli confessa che i suoi occhi sono profondi, simili a quelli di un felino, ed ecco il nome d’arte che si appiccica all’artista da giovane. È solo questione di mesi: il primo contratto, i primi successi, tanta voglia di scrivere e di esprimersi, esibizioni e lavoro duro. Le canzoni sono leggere, motivetti orecchiabili e innocui, ma già si possono intuire le potenzialità in divenire attraverso le porte socchiuse di un immenso talento. Qualcosa, però, comincia a scricchiolare. Siamo nel 1968, i rapporti con la sua prima casa discografica si stanno deteriorando, una tosse ignorata si trasforma in tubercolosi e lo costringe a un lungo ricovero in ospedale, la prima notte dell’anima per il giovane cantautore, che inizia a guardarsi dentro e a scoprire i lati oscuri della sua personalità, quelli che lo tormenteranno negli anni a venire. Allora ventenne, le cure migliori diventano l’introspezione e la composizione di nuove canzoni, che modificano radicalmente il suo approccio alla musica. È in quell’ospedale che Cat Stevens diventa l’autore “maturo” dei capolavori che oggi conosciamo: cambia la casa discografica e nel giro di un anno e mezzo pubblica tre album “storici” che regalano perle come Lady D’Arbanville, Wild World, Father and Son, Morning Has Broken, Moonshadow, Peace Train e tante altre negli anni a venire, anche se è proprio tra il 1970 e il 1972 che l’artista dà il meglio di sé.



Il successo, planetario, arriva e lo stritola nel suo ingranaggio. Donne bellissime, dall’attrice Patti D’Arbanville alla cantante Carly Simon, poi droghe, alcol ed eccessi vari, quasi a ribadire che allo stereotipo della rockstar bella e maledetta non si può fuggire. Ma è un inganno, e lui se ne accorge molto presto. Perché se gli stupefacenti gli consentono di oltrepassare le porte della percezione, allo stesso tempo non gli offrono alcun aiuto per stare da questa parte, il mondo reale, quotidiano, la vita. Ciò che lui veramente vuole. Diventa scontroso, si chiude in se stesso, prova ad avvicinarsi alla religione attraverso il cristianesimo senza disdegnare o escludere altri percorsi spirituali (anche) un po’ bizzarri per trovare quella fonte che gli consenta di dissetare la sua sete interiore. Non la trova, e questo gli causa un’atroce sofferenza che si riflette nella sua arte, sottraendo popolarità e ispirazione. Ma qui arriva il momento della svolta, un episodio che caratterizzerà per sempre la sua esistenza.

Siamo nella tarda primavera del 1975, Cat Stevens è ospite a Malibu in California presso la villa di Jerry Moss, manager della sua casa discografica statunitense che ha organizzato una festa in suo onore. Ben presto, stanco della frivolezza mondana che si respira, l’artista si allontana e decide di fare un bagno in solitudine. Si immerge, nuota tranquillamente nelle acque del Pacifico fin quando una strana corrente lo trascina al largo rendendo vani i suoi sforzi per tornare a riva. Vede lo stesso Moss sulla spiaggia allontanarsi gradualmente dal suo campo visivo e non riesce a far sentire le sue grida di aiuto. Ormai esausto e completamente privo di forze, Stevens si appella a Dio chiedendo aiuto per uscire vivo da ciò che sembra un destino annunciato. In cambio promette di dedicargli il resto della sua vita. Ed è quello che accade.

Il Dio invocato ha presto un nome: l’anno seguente il fratello David gli regala una copia del Corano dopo una visita a Gerusalemme, e Cat ne rimane impressionato. Il 23 dicembre 1977 Stevens entra nella moschea di Regent’s Park a Londra e abbraccia ufficialmente la religione islamica. Ma per gli accordi con la casa discografica – un tempo i contratti si rispettavano – manca ancora un album per essere “libero”, e Back to Earth, uscito nel 1978, sancisce il definitivo congedo dal suo pubblico, anche se per quasi trent’anni il nuovo Yusuf non abbandonerà la musica, dedicandosi esclusivamente a composizioni religiose.

Una scelta sofferta, dolorosa, assolutamente da rispettare. I conflitti si attenuano lasciando spazio, gradualmente, alla serenità: “Una delle principali prospettive dell’uomo è quella materiale, secondo la quale dovremmo bere, mangiare ed essere felici. Il problema e che io avevo bevuto, avevo mangiato, ma non ero felice”, ci spiegherà anni dopo.

Da allora, numerose sono le iniziative benefiche che lo vedono impegnato in prima persona, molti gli errori, altrettante le strumentalizzazioni della stampa inglese e internazionale, ben pronte a dargli addosso alla prima occasione. Su tutte, il presunto sostegno all’Ayatollah Khomeini nella fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie, autore dei più che discutibili versetti satanici. Una frase pronunciata nel febbraio 1989 di fronte agli studenti del Kingston Polytechnic rischia di provocare uno scandalo, e in effetti lo provoca, anche se i precisi contorni del suo discorso restano ancora abbastanza oscuri.

 

 

Per giungere ai nostri giorni, la notizia della sua partecipazione a Sanremo è stata salutata con ironia e malizia da alcuni media, che non hanno perso occasione di stigmatizzare il suo passato, quasi fosse unfondamentalista. Ma un credo non può essere valutato secondo i canoni di una massa di facinorosi che usano la religione per giustificare guerre e vittime, bensì per i suoi dettami e i suoi dogmi, decisamente lontani dal triste presente che stiamo vivendo. È vero, lo stesso Yusuf non si è mai espresso sulle stragi e le persecuzioni dei cristiani nei paesi musulmani, e questo certamente non gli rende merito, ma al tempo stesso non lo fa diventare un potenziale terrorista. Perché nel frattempo Yusuf è tornato a proporre musica pop, riappropriandosi del vecchio nome d’arte per cercare di costruire “un ponte tra Oriente e Occidente”, secondo le sue stesse parole, nel tentativo di stabilire un contatto tra due mondi (solo) all’apparenza inconciliabili. “Il figlio dei fiori convertitosi all’Islam”, “Il ritorno del padre del Sessantotto”, ecco alcuni titoli che ho letto in questi giorni. Ma sono falsi storici, perché Yusuf Cat Stevens non è mai stato un figlio dei fiori e anzi, del loro profumo ingannevole è stato vittima; come non è stato né il padre né il figlio del Sessantotto, pur interpretandone a meraviglia i conflitti che si stavano profilando (quello generazionale di Father and Son l’esempio più concreto).

Sono sicuro che avrebbe tante cose da dirci, Yusuf. Sulla modernità tecnologica invasiva, i rapporti umani, la terribile condizione delle donne nei paesi arabi, la difficile conciliazione tra due realtà mai così in conflitto. Speriamo solo che Fabio Fazio non si limiti a strumentalizzare la sua presenza con le solite domande retoriche, sarebbe un’occasione veramente sprecata.