“Non chiederò perché puoi stare senza me”. Non è questa l’ultima thule della vita, di quello strappo di esistenza che Giuliano Palma afferra, con fendenti immediati, in questa canzone pop-romanticamente altra dal gergo del genere. Violato è il segno dell’addio: l’ultimo bacio non è un ultimo frangente, ma è “un’ombra sul muro”, una presenza, la Presenza di ciò che preconizzi ma non vuoi afferrare fino in fondo, perché fa male. “Non chiederò perché puoi stare SENZA me”. Ecco l’enfasi sul “tempo immobile”: non c’è tempo, era destino, doveva forse andare così? Non dovevamo rimanere insieme? Un bacio è crudele, perché “un addio vuol dire non voltarsi mai” e invece l’atto magistrale e intemerato del baciare la donna (ancora) amata sembra stoppare tutto, fermare il riquadro proprio mentre vuoi giocare l’ultima carta, destinale: l’addio. Dire all’attimo: fermati, sei bello! – è possibile, ma ferocemente doloroso. Se lo fai, muori dentro. Allora, ci sono solo dei “non”: “Non c’è ragione mai in quello che mi fai”; “non posso spiegare”. Non c’è niente da spiegare, qui in gioco è il dis-piegare, il mazzo delle carte che si muovono senza più il soggetto a concentrar l’arte del frusciare il mazzo con deliziosa maestria. Si fa quel che si può anche alla fine, dolenti, ma attenti: mettere attenzione e concentrazione nell’addio è il gesto più virilmente magico che un uomo possa realizzare. Anzi, addirittura: creare. Fallire è opera del genio e Beckett suggeriva: “Fallisci meglio”. “Si spacca l’amore”: endgame. Il gioco è finito, ma la compostezza dell’attenzione, quasi con il taglio euclideo-mistico proposto da Simone Weil, è divina e, dunque, infinitamente umana. Com’è umana la nostra umanità! L’uomo innamorato sa di dover perdere la candela del ritorno; sa che lei non lo ama più, a un certo punto lo sa, e ciò può darsi anche per la grandezza dell’uomo; sale come la tempesta rabbiosa di un nuovo inizio, a rivendicare sorti diverse: “Sei uno sbaglio”. Non c’è gesto più crudele e necessario dell’addio. Forse lo stesso amore è bersagliato dall’addio, perché, in fondo, vuole soltanto Dio: addio, come dire: vi raccomando a Dio, donna amata e non più trattenuta. E’ come la verginità, terra che non condona spazi agli equivoci: tutti devono amare così, senza possedere e trattenere. Se vuoi andare, vai, ti raccomando a Dio. Non “Goodbye”, diciamoci “Goodbye”, to say goodbye, dire addio, non è questo; sarebbe un equivoco, c’è molto di più, perché qui c’è sempre Dio: ad-Dio, verso Dio, è verso Dio che devi andare. Altrimenti, “sei [solo] uno sbaglio”. “Ti lascio sparire”: perché sei libera. “Si spacca l’amore”: è necessario, perché così due singoli possono riprendere le loro strade, liberi. “E il cielo su di noi”. Questo rompe ogni tradizione pop-romanticheggiante. Non è “il cielo in una stanza”. E’ “il cielo su di noi”. E’ un’affermazione di stato, il riconoscimento di un’evidenza lineare, geometricamente impazzita, perché ci lasciamo e c’è l’ad-Dio, ma, se c’è Dio, c’è anche quel cielo che tutto contiene, anche il paradosso, quel “silenzio” che “fa rumore dentro di me”. Tutto si tiene in questa girandola di vertici e azioni, tesi verso quel “cielo sopra di noi”, verso quel certo particolare e puntuto ad-Dio. Non cerco dimostrazioni matematiche, lo so, non c’è l’algoritmo che mi spiega questo spinoso groviglio che mi fa male e mi strania, perfino di fronte a me stesso; ma – in fondo – “non c’è ragione mai in quello che mi fai”. Un solo accenno, che fa così: no, non c’è ragione, ma c’è visione di Te, ancora, perché ancora ti amo: “un sorriso”.