I Depeche Mode sono una delle live band più grandi del pianeta, non è una novità. È meglio quindi non aggiungere nulla e limitarsi a raccontare quel che è successo al Forum d’Assago nella fredda sera del 20 febbraio, durante la seconda delle tre date programmate nel nostro paese per la leg invernale del Delta Machine Tour. Iniziamo col dire che vedere in azione una band così grande all’interno di un palazzetto, è un autentico privilegio. Un po’ perché, data la capienza degli impianti e il livello altissimo della richiesta, trovare un biglietto è un’impresa. Un po’ perché, parlando a titolo personale, gli stadi li ho sempre trovati insopportabili. Sono ovviamente obbligatori quando si raggiunge un certo livello di popolarità, ma è innegabile che siano luoghi dispersivi, dove il suono va e viene, il gruppo è distante e dove la coreografia e la dimensione dell’evento contano di più della musica suonata. 



Il palazzetto, al coperto e maggiormente raccolto, è invece impagabile per creare quell’atmosfera da bolgia infernale che un gruppo come i Depeche Mode meriterebbe. Sempre che i suoni siano all’altezza, ovviamente. E questa sera, dispiace dirlo, i fonici non hanno fatto benissimo il loro dovere, non riuscendo nell’impresa di rimediare alla resa acustica già particolarmente scadente della venue meneghina. 



La prima frazione del concerto è stata dunque rovinata da volumi impastati ed eccessivamente bassi, al punto che i boati del pubblico spesso rendevano inintelligibile ciò che la band stava suonando. Ma è stato un problema fino a un certo punto: quando sul palco ci sono musicisti di quella caratura, il carisma parla da solo. 

Luci spente alle 21 spaccate e partenza con “Welcome to My World”, come sempre durante questo tour. Il brano è bellissimo ed è l’ideale per aprire uno show ma su questa e sulla successiva “Angel” (anch’essa tratta dall’ultimo “Delta Machine”) la gente rimane un po’ freddina. Fa eccezione la componente femminile, che non perde occasione di lanciare urla entusiaste ogni qual volta Dave Gahan si esibisce nelle sue famose mosse serpentine. 



Dave Gahan, appunto. Il singer è un autentico animale da palco, uno dei più grandi frontman della storia del rock. Si presenta agghindato in gilè nero e giacca luccicante color argento, abbandonata dopo il primo pezzo ad esibire le braccia ricoperte dai celebri tatuaggi. La splendida voce baritonale (sempre in grande spolvero, nonostante gli anni che passano), e la sua gestualità sensuale costituiscono una combinazione letale che lo rende autentico mattatore dello show. Non a caso, ogni sua singola mossa è sottolineata da urla indiavolate e non è un segreto che il pubblico femminile abbia occhi solo per lui. 

La sua controparte, il biondo Martin Lee Gore, è altrettanto magnetica, anche se in modo ben diverso: si muove poco ma è l’anima strumentale dello show, diviso com’è tra tastiere, chitarre e backing vocals. Se si vuole avere chiaro che cosa vuol dire che, sotto il pesante vestito elettronico, nelle canzoni dei Mode batte un’anima blues, bisogna guardarlo suonare la sua Les Paul, da cui trae note caldissime e minimali.  

Alla destra dello stage, Andy “Fletch” Fletcher, qualche chilo di troppo e impassibile dietro i suoi occhiali da sole. I fan ironizzano spesso sul suo effettivo contributo live all’interno del gruppo e in effetti, quando per metà canzone non suona ma si limita a dirigere il battimani della gente, qualche dubbio ti viene. Ma è anche un lui un pezzo di storia della band,  non potremmo mai immaginarceli senza di lui. 

Al loro fianco, gli ormai rodati session Christian Eigner (batteria) e Peter Gordeno (tastiere) svolgono un ottimo lavoro e si mostrano fondamentali nella resa live dei vari pezzi. 

Inizio in sordina, dicevamo. Si decolla veramente con “Walking in My Shoes”, che purtroppo sarà la più penalizzata dal suono osceno delle prime battute. Segue una commovente “Precious”, uno degli episodi più belli della produzione recente di una band che, comunque, non ha mai sbagliato un disco. Poi si spengono le luci, parte il giro di tastiera di “Black Celebration” e a quel punto il Forum diventa una bolgia. Cupa e ossessiva, suonata più lenta della versione in studio, è una di quelle song che da sola può indirizzare un concerto verso binari di eccellenza e non è un caso che da qui in avanti si volerà solo ad alta quota. 

L’accoppiata “In Your Room”/Policy of Truth è da capogiro, con un Gahan strepitoso e un pubblico scatenato, che salta e balla dovunque, anche sugli spalti più lontani. Ciliegina sulla torta: adesso si sente anche meglio. 

È poi il momento di Martin, che si prende una meravigliosa parentesi acustica, cantando (meravigliosamente) “Slow” e “Blue Dress” accompagnato da Gordeno. Anche la sua voce è un marchio di fabbrica del sound dei Depeche Mode, sono tanti i brani a cui la sua interpretazione vocale ha donato un tocco inconfondibile. 

Il resto della band ritorna poi sul palco per “Heaven”, il singolo che ha lanciato “Delta Machine”, accompagnato dalle immagini del video, proiettate sul grande schermo posto alle spalle della band. Succederà anche su altri pezzi ed è questa l’unica concessione agli effetti scenografici fatta in questo tour. Per il resto, anche il disegno delle luci è molto semplice, lasciando che sia la musica ad avere sempre l’ultima parola. 

È cambiata anche la scaletta: leggermente più corta, ha visto la scomparsa di molti episodi dell’ultimo disco (stasera ne ascolteremo solo quattro ma d’altronde è già un anno che è uscito e la promozione non è più necessaria) e l’apparizione di numerosi brani immortali, il cui solo accenno basta a provocare il delirio tra il pubblico. Tra queste, “Behind the Wheel” viene accolta da un boato tale da far crollare tutto, mentre su “A question of Time” si salta dall’inizio alla fine, nonostante l’invito di Dave a cantare il ritornello cada completamente nel vuoto. Parole troppo difficili? Può darsi, perché su “Enjoy the Silence” il Forum è un’unica voce, al punto che quasi vengono coperti gli strumenti. In mezzo a queste due, una pesantissima “A Pain That I’m Used to”, proposta nella versione remix realizzata da Jacques Lu Cont, che ne ha messo ancor più in risalto la componente aggressiva e oscura. 

Poi l’immancabile “Personal Jesus”, che esplode solo dopo che Dave e Martin ne hanno eseguito il ritornello in maniera bluesy e lentissima. Lo show regolare finirebbe qui ma ovviamente nessuno ne ha abbastanza. Dopo un break per fare gli auguri di compleanno a Peter Gordeno, spetta sempre al festeggiato accompagnare Martin al pianoforte: la versione di “Shake the Disease” che ne esce è sorprendente. Incredibile pensare che fu una delle loro prime hit quando ancora erano identificati nella scena electro pop dei primi anni ’80. Hanno sempre avuto una marcia in più, oltre che delle radici profondissime nella musica americana. Stasera, ascoltando Martin cimentarsi in questo suo episodio di gioventù, si capisce perché sono sopravvissuti a tutti, riuscendo a diventare quello che sono ora. 

Con la successiva “Halo” si va ancora a toccare il territorio dei remix. Questa volta è quello di Goldfrapp ad essere preso in considerazione: versione notevolmente rallentata, con il ritornello che, rispetto all’originale, esce di meno. Peccato, ma risulta comunque un’esecuzione emozionante, che viene impreziosita dal malinconico video di una ragazza a passeggio sullo sfondo del Reichstag di Berlino. 

Parlando di amarcord, non c’è modo migliore di “Just Can’t Get Enough” per fare impazzire tutti e Dave, visibilmente compiaciuto, si diverte a far cantare il ritornello anche diversi minuti dopo che il pezzo è finito. Per il livello di adrenalina sprigionato, non si dovrebbe andare a casa più. Ma il tempo ormai sta per scadere e allora ecco una “I Feel You” sporchissima e satura di effetti, efficacissima anche se diversa dalla versione che apriva il capolavoro “Songs of Fate and Devotion”. 

Manca solo una canzone ormai, e quando Martin cambia chitarra non c’è bisogno di prendere scommesse: basta la prima mezza nota di “Never Let Me Down Again” per scatenare nuovamente le danze. Dall’inizio alla fine è tutto un grande, suggestivo sing along, per quello che può essere senza dubbio definito il brano che meglio rappresenta i Depeche Mode prima dell’esplosione commerciale di “Violator”. La celebre “ola” diretta da Dave sulla coda del pezzo, con l’impressionante colpo d’occhio che ne consegue, è l’ultima immagine che ci portiamo a casa di questo show. 

Con i R.E.M. sciolti, i Simple Minds impegnati a celebrare nostalgicamente il passato, gli U2 ridotti ad una vuota macchina scala classifiche, il trio di Basildon sembra ormai l’unico, tra le band nate nei primi anni Ottanta, in grado di tenere testa ai nuovi act, imponendosi con la forza di un repertorio che non cala mai di qualità e di spettacoli di livello assoluto in cui tutto, davvero tutto, funziona alla perfezione. Per quanto mi riguarda, rimarrà il concerto dell’anno. Arrivati a questo punto, solo gli Arcade Fire potranno farmi cambiare idea…