La campagna calabrese, una chiesa seicentesca che una volta faceva parte di un Convento di frati Cappuccini, un’esperienza di convivenza quasi eremitica con tutta la band; e poi sintetizzatori, batterie elettroniche, un produttore italo-giapponese. Questi gli elementi apparentemente contradditori che Dario Brunori – in arte Brunori SAS – ha scelto per l’incisione del suo nuovo album “Vol.3 – Il Cammino di Santiago in Taxi”. Un album che al primo ascolto scorre senza sforzi tra malinco(iro)nie e suoni vintage sapientemente riproposti in chiave attuale, ma che in un secondo momento rivela tutta la sua urgenza e il suo spessore, da una tensione continua tra ragione e sentimento, cuore e cervello, tecnicae passione.



Brunori incontra i giornalisti a Milano il giorno prima dell’uscita del suo terzo album di inediti (e che da marzo diventerà anche una tournée nei club e teatri di tutta Italia: “Il Cammino di Santiago in Tour”). È a suo agio, spiritoso e a suo modo – nonostante sia piuttosto malato – incontenibile, con una punta di ironicissimo egocentrismo subito confermata dalla copertina del nuovo album, in cui appare il suo faccione barbuto. 

Come mai quella copertina? Si tratta di un album introspettivo?

Il mio primo lavoro si chiamava semplicemente Vol. 1, e aveva in copertina la faccia esuberante di un bambino di 10 anni. Parlava di me, essenzialmente, e fu scritto in seguito al mio ritorno al sud, dovuto alla morte di mio padre: io facevo il chitarrista a Firenze, poi dovetti tornare a lavorare presso l’azienda edile di famiglia. Una parentesi difficile, in cui però ebbi l’occasione di mettermi faccia a faccia con le mie origini e la mia infanzia. È li che iniziai a scrivere canzoni. Nel secondo (Vol. 2 – Poveri Cristi) invece ho tentato di spostare lo sguardo più in là per descrivere l’umanità che vedevo intorno a me. Adesso è come se riprendessi filo del discorso iniziato nel Volume 1, e in questo senso la mia bella faccia ha il suo motivo di essere.

Un album che parla di te. Dunque hai percorso il Cammino di Santiago in Taxi?

No, beh! (ride n.d.r.) Il titolo è stato ispirato da un aneddoto che mi hanno raccontato, che ha per protagonista una signora delle mie parti che voleva assolutamente andare a Santiago de Compostela, ma siccome aveva fretta e non voleva far troppa fatica, alla fine ci è andata in taxi. A parte che mi fa molto ridere, trovo in questo racconto qualcosa che mi appartiene, e che vedo molto in giro, anche rispetto a gente molto più intelligente di me. Una tensione irrisolta tra profondità e superficie, tra desidero e smania di una risposta veloce e confortevole. Ho anche fatto della meditazione in questi mesi, ma poi avevo fretta di finire per giocare a Ruzzle! Capita anche questo ormai… (ride n.d.r).

Parliamo di come ha preso corpo l’album: perché avete scelto di incidere in una chiesa? E che peso ha avuto la scelta di Taketo Gohara come produttore, per te che hai sempre lavorato in piena autonomia?

In sostanza volevo semplicemente fuggire dalla classica situazione della sala di incisione. Per il tipo di proposta musicale che facciamo, in cui l’interpretazione è fondamentale, non ci aiuta a dare il meglio di noi, risulta fredda e forzata. E poi ci dicono sempre che i live sono il nostro pezzo forte. Allora ci siamo detti: perché non provare a portare l’emozione e la forza del live direttamente nel disco? Così abbiamo preso lo studio mobile di Vinicio Capossela, l’abbiamo montato in questa chiesa (che non è neanche sconsacrata), e abbiamo chiamato Taketo Gohata perché ha sempre seguito Vinicio e sappiamo che sa gestire un’incisione in qualsiasi posto. Abbiamo puntato a un effetto “in presa diretta” con pochissimi interventi successivi, per catturare un suono istintivo che restituisse un clima e una tensione unici, da vera session. In questa situazione da “ritiro”, siamo finalmente arrivati al punto di dimenticarci che stavamo registrando, suonando semplicemente al nostro meglio. Taketo ci ha guidato esattamente dove volevamo arrivare noi, sfrondando i vezzi e puntando al cuore.

Cosa hai cercato di dire con le canzoni di questo disco?

In fin dei conti il mio “cammino di Santiago in taxi” è un tentativo sentimentale e poetico, e per questo non privo di qualche sbavatura ingenua, di riportare lo sguardo in profondità, dribblando le distrazioni e le tentazioni del mio tempo, del mio ego, del mio mestiere di buffone sul palco, della mia semplice natura di essere umano. 

Dario Brunori ci saluta rapidamente per dedicarsi al suo lavoro principale: quello di cantare le sue canzoni. Non sta benissimo, ma quella voce roca e più vulnerabile del solito risulta potente ed evocativa, da vero cantastorie. Esegue alcuni brani del nuovo album.

 

Le tracce dell’album.

 

Arrivederci Tristezza. Nostalgica e melodiosa, rappresenta bene tutto il clima dell’album: una sorta di ribellione ironica verso il cervello razionale e la tendenza ad analizzare, a calcolare, a ridurre tutto a materia e numeri. 

 

Mambo Reazionario. Brano allegro e pungente che vuole descrivere l’uomo odierno in balia degli eventi, ormai ridotto a somma di tanti soggetti. Una satira verso un’epoca che riesce a frullare tutto in un unico pastone: ideologie, simboli, religioni, Fidel Castro, Che Guevara e Beyoncè. Tutto e il contrario di tutto, senza alcuna titubanza.

 

Kurt Cobain. Brano uscito come singolo prima dell’album, ha suscitato parecchie critiche sia per la citazione del leader dei Nirvana (secondo alcuni fuori luogo) che per una presunta somiglianza stilistica con De Gregori.  Al di là del chiacchiericcio, si tratta un brano malinconico, forse non fortissimo, ma onesto. Si prendono a prestito le immagini di due icone come Kurt Cobain e Marilyn Monroe per parlare della solitudine di tutti gli uomini. Nelle note dell’album Brunori cita Pasolini: “Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo”.

 

Le Quattro Volte. Il titolo è lo stesso di un film di Michelangelo Frammartino, che ha impresso in pellicola un racconto sulla ciclicità della vita. Ma qui si va oltre la ciclicità: in questa ballata dal sapore Dylaniano (addirittura), si passano in rassegna tutti i piccoli obiettivi di una vita che, non appena raggiunti, ci lasciano insoddisfatti, ma anche subito pronti – inconsapevolmente, cocciutamente – a rimpiazzarli altri altrettanto futuri e deludenti. Viene in mente quel che scriveva Montale in Ossi di Seppia: “Tutte le immagini portano scritto: «più in là»”.

 

Il Santo Morto / Il Manto Corto. Secondo brano altamente satirico, mette in guardia dal sincretismo moderno, fatto di Teleradio PadrePio e PulcinoPio. Una sorta di zapping o, per essere più attuali, come il saltellare sul web da un link all’altro senza un’apparente logica di fondo. Interessante la coda del brano: un crescendo corale ipnotico e delirante.

 

Maddalena E Madonna. È una classica ballata alla Brunori. Agrodolce e sentimentale, ti porta – senza cedere alla banalità di un revival – a urlare il ritornello a squarciagola, senza freni, con passione, come quando si cantava tutti insieme sulla spiaggia. Fondamentale, qui, il denso tessuto sonoro fatto di fiati, archi, giocattoli e rumori, che fa da contraltare al suono classico del pianoforte.

 

Nessuno. Interessantissima e intrigante, come lo sono spesso i brani guidati da una decisa linea di basso. Si tratta di una confessione, un atto di onestà, in cui Brunori rivela di come spesso si compiaccia del suo ego, svelando e ammettendo una sorta di meschinità. Ma anche questa confessione – dice – “è una sottile vanità”.

 

 

 

Pornoromanzo. Unico episodio di smaccato ammiccamento all’ascoltatore, è un rock dal sapore retrò che racconta una storia nonsense con vaghi riferimenti a “Lolita” di Nabokov. “Un libro che – confessa ironicamente l’autore – non ho neanche letto. Questo dice molto della superficialità dei giorni nostri”.

 

La Vigilia Di Natale. Amara e disillusa, ma anche lucida e sincera, parla della normalità che t’ingoia, la famiglia, il lavoro, le rivoluzioni sedate a colpi di cenoni, pasquette e vacanze al mare. Il desiderio di fuga. Il sapore delle cose che non tornano mai. 

Sol Come Sono Sol. È la storia di un uomo abbandonato sull’altare. Un valzerino malinconico e poetico che, seppur nel dramma di fondo, suona comunque come una canzone d’amore. Nella sua esecuzione un po’ sbronza e zoppicante, è forse il brano più rappresentativo dello stile di registrazione dell’album.

 

Per concludere, si tratta di un lavoro non certo rivoluzionario nei suoni, ma assolutamente interessante in termini di maturità artistica e compositiva. Il percorso di questo cantautore diventa denso e pieno di spunti, senza risultare pesante o autoreferenziale. 

Brunori si domanda ironicamente: “Come fa la gente a pagare per ascoltare i miei lamenti?”. Ma la risposta è molto semplice: la sua onestà e schiettezza permette, in un certo senso, di guardarsi dentro con maggior consapevolezza, pur nell’assenza di risposte certe. 

Perché in mezzo a tutte le illusioni, alle frivolezze della tv, alla smania da social network, emerge insopprimibile il desidero di qualcosa di più, di un pezzo mancante che unisca la vita, che spezzi la ciclicità mortale dell’esistenza. 

Ed è in questo portare lo sguardo su qualcosa di non detto, su una grande assenza, sui conti che non tornano mai, il vero valore di questo album. Arrivederci tristezza.