Non esistono solo i gruppi famosi, nel mondo del rock. C’è tutto un sottobosco fittissimo di band ed etichette discografiche che producono ottima musica per ascoltatori appassionati di novità e che si definisce “di nicchia” solamente perché non ci sono così tante occasioni per farla conoscere in giro. Potessero raggiungere i grandi network e i principali canali di distribuzione, molte di queste band sarebbero delle mega star. Ne avevamo parlato lo scorso anno, quando intervistammo i danesi Northern Portrait. Chi li conosce? Eppure, dicevamo, di carte per arrivare in classifica ne avrebbero eccome! 



Bene, da poco più di un mese, Marco Masoli e Luca Pasi, collaboratori di Onda Rock e di Sentire Ascoltare, nonché fondatori de Il Cielo Sotto Milano, con cui portano a suonare dalle nostre parti tante band meravigliose quanto misconosciute, assieme ad altri cinque amici hanno deciso di fare il grande salto.

Nasce così Going Solo, il primo blog italiano scritto interamente in inglese, dedicato a promuovere tutte quelle band che potrebbero rientrare dentro la famigerata etichetta “indie pop”. Tutta gente sconosciuta a quelli che pensano che gli Arctic Monkeys siano la nuova next big thing ma tutta gente che andrebbe ascoltata e tenuta d’occhio con attenzione. 



Noi, nel nostro piccolo, ci proviamo: abbiamo fatto quattro chiacchiere coi ragazzi di Going Solo, per farci raccontare qualcosa della loro attività e di alcune delle favolose band di cui si occupano. 

Per favore, non passate oltre! 

Direi di iniziare col raccontare qualcosa di voi. Chi siete, cosa fate, come avete fatto ad appassionarvi a questo tipo di musica. 

Marco: Going Solo non siamo solamente io e Luca, ma ci stanno dietro altre cinque persone che bene o male gravitano nell’ambiente del giornalismo musicale italiano (e/o degli eventi) ormai da diversi anni. Io personalmente ho inizialmente collaborato con Indie-Rock.it per poi passare sulle pagine di Sentireascoltare; Massimo esattamente come me, aggiungendo un ulteriore proficua, anche se ormai conclusa, collaborazione con il 405 (una delle più importanti webzine del Regno Unito); Andrea scrive su Sentireascoltare; Luca si divide da sempre fra Ondarock e Frigopop; Mattia collabora con Ondarock e gestisce Indie-Roccia.it; Giacomo collabora invece con Deer Waves, con cui aveva a che fare in precedenza anche Karola.



Prima di mettere su Going Solo avete iniziato l’esperienza de il cielo sotto Milano. Ci raccontate qualcosa? 

Marco: le due cose sono da considerarsi completamente in modo distinto. Io mi occupo della programmazione e della direzione artistica de Il Cielo Sotto Milano, attraverso cui organizziamo costantemente eventi live su Milano. Luca si affianca a me per ciò che riguarda la direzione artistica dei Pop Days. Going Solo però non ha nulla a che vedere con tutto questo, sono cose proprio separate.

Allora, che cosa è esattamente Going Solo? Che obiettivi vi prefiggete da questa iniziativa? 

Marco: Going Solo è un’idea che avevamo in testa da diversi mesi, parlando tra di noi e cercando di mettere in evidenza quella che secondo noi era una “mancanza” nel modo di proporre e scrivere di musica in Italia. Ci sono siti web storici che portano avanti da tempo il proprio lavoro con estrema competenza e professionalità, ma spesso sono meno inclini alla vera e propria “scoperta”, a ciò che viene solitamente definito col termine “new music”. Allo stesso tempo la completezza di contenuti diventa spesso quasi enciclopedica e va a penalizzare la fruibilità e l’immediatezza che una fetta sempre più grande di pubblico va cercando. Dall’altro lato ci sono moltissimi altri siti e blog più snelli che dedicano spazio agli act più emergenti facendo un vero lavoro di ricerca, ma rimanendo un po’ ancorati al sistema tutto italiano dell’autoreferenzialità e dell’esprimersi nella propria lingua madre che, per carità, è assolutamente legittimo, ma può risultare un po’ limitante sul lungo periodo. Going Solo ha l’obiettivo di riempire questa mancanza nell’offerta e prendere esempio dalle realtà già presenti e universalmente riconosciute all’estero, partendo dai blog americani di riferimento, per finire soprattutto con quei blog in Europa che scrivono da sempre in inglese senza che nessuno si stupisca di nulla. E’ un blog sulla “new music” che guarda all’Italia e all’estero e cerca di farlo nel modo più diretto ed immediato possibile: articoli brevi in inglese e ascolto contestuale. Gli obiettivi futuri andranno di pari passo con gli sviluppi e il seguito che riusciremo ad ottenere, ma già ci sono parecchie novità in cantiere.

In effetti, la vostra decisione di scrivere in inglese mi ha impressionato favorevolmente. Non è da tutti, soprattutto in Italia, e il vostro livello di conoscenza della lingua è davvero alto. Trovo che questo sia per voi un valore aggiunto. Siete d’accordo? 

Marco: come si diceva prima, crediamo fermamente che l’ambiente italiano non debba sentirsi costantemente un passo indietro rispetto al resto del mondo e debba altresì mettersi in gioco a livello internazionale con proposte contenutisticamente di livello e che siano esportabili (e parlo sia dal punto di vista di chi scrive di musica, sia da quello di chi la musica in Italia la fa). Finchè ci si chiude solo in casa propria parlando del proprio orticello nella propria lingua, non si avrà mai un riscontro reale, positivo o negativo che sia, che quello che si sta facendo possa avere un peso anche al di fuori dei confini nazionali. Siamo sostanzialmente i primi a curare un blog totalmente in inglese di questo tipo in Italia, ma vorremmo che questa cosa venisse considerata, come detto, la normalità, così come avviene quotidianamente per moltissimi altri blog in giro per l’Europa in paesi non anglofoni.

 

Il termine “indie” in questi anni ne ha fatta di strada. Che significato ha oggi per voi? 

Andrea: se facessi questa domanda a dieci persone diverse otterresti dieci risposte diverse. Il termine, di base, è un’abbreviazione di “independent”, ma personalmente preferisco non usarlo, dato che è spesso associato anche ad alcune band, come Strokes e White Stripes, che hanno pubblicato fior di dischi su major. Personalmente preferisco pensare al concetto di “indie” nella suo aspetto slegato dagli obblighi delle case discografiche e più strettamente DIY, legato a realtà storiche come i Pavement, i Dinosaur Jr o i Sonic Youth per esempio; sono, insomma, dalla parte di coloro che preferiscono definire queste band riferendosi prettamente al loro sound, con termini quali alt-rock, noise e similari. Ecco, il termine “indie” più che un genere è probabilmente un’attitudine.

 

Ascoltando tutte queste band, realizzando quante ce ne sono, mi verrebbe da pensare agli inizi degli anni ’80 quando le radio dei college americani divennero veicoli importanti per la conoscenza di un certo tipo di musica e diedero notorietà a gruppi come i R.E.M. Oggi in che mondo ci troviamo?

Mattia: oggi le possibilità di ascolto e scoperta di nuovi artisti si sono moltiplicate all’ennesima potenza; la musica è, in pratica, disponibile integralmente in rete per tutti. Il concetto di fondo però non è mai cambiato: i meritevoli arrivano. Se i R.E.M.  avessero 25 anni oggi, non si sarebbero persi fra i bassifondi di un link clandestino a un brano su Soundcloud; la loro musica sarebbe esplosa comunque, perché stiamo parlando di un’Eccellenza musicale. Chiaramente oggi, ancor più di vent’anni fa, c’è bisogno di un lavoro di scrematura  maggiore da parte di chi produce e distribuisce i dischi, considerando che per proporsi bastano una mail e un paio di canzoni caricate su Bandcamp. Certo per gli appassionati è dura districarsi in mezzo a tutte queste proposte e non tutti sono affamati di novità e curiosi come magari lo siamo noi. C’è chi lascia fare agli altri il lavoro sporco e “subisce” quello che gli viene proposto, riponendo la propria fiducia in questa o quell’altra webzine/blog/rivista. In un certo senso, noi vogliamo essere dei selezionatori e far sapere alle persone che c’è tanta musica valida (in Italia e all’estero) che ancora non ha ricevuto la giusta attenzione.

 

E che cosa potrebbe accadere in futuro, secondo voi? Quali possibilità di sviluppo intravedi? 

Non abbiamo la sfera di cristallo, ma possiamo dirti cosa ci piacerebbe che accadesse. Ci piacerebbe che in Italia si coltivassero di più i piccoli club (ce ne sono tanti che andrebbero menzionati per la qualità della loro programmazione), che venissero supportati da tutta la “scena” locale e che non ci si presentasse alla porta solo quando suona il gruppo di un amico o il tuo.  Ci piacerebbe che si risvegliasse una certa curiosità di fondo, alimentando una domanda di nuovi artisti che per ora latita, che non fossimo sempre l’ultima ruota del carro quando le band devono intraprendere tour europei. Ci rendiamo conto che la “scena alternativa” (chiamiamola così) italiana non conta poi su così grandi numeri, che i concerti degli Arctic Monkeys non fanno testo perché più della metà del pubblico è composta da gente che partecipa a due concerti l’anno e non coltiviamo l’illusione di riempire il Futureshow Station o l’Ippodromo del Galoppo con i Chvrches o i London Grammar. Sarebbe bello però che ci fosse una base più solida e sempre alimentata, meno menefreghista e più consapevole che si è tutti sulla stessa barca, senza distinzioni fra Milano, Bologna, Roma, Torino..

 

Vi faccio una domanda un po’ scherzosa: ma voi vi augurate davvero il successo dei gruppi di cui scrivete? Non è che poi, dovessero gli Alpaca Sports finire su major e riempire le arene, direste che erano meglio ai tempi del primo singolo? Più seriamente, che cosa ne pensate di una certa attitudine snob che a volte si vede in certe band o giornalisti, soprattutto in Italia? 

Marco: assolutamente sì. Il nostro obiettivo è quello di “lanciare” band che sono ancora poco conosciute, ma intorno alle quali si sta già sviluppando un certo tipo di interesse da parte del “settore”, o di scovarle da zero e farle conoscere al pubblico perché le riteniamo interessanti. Ciò che è già molto noto non ci riguarda, o meglio, ci riguarda eccome personalmente (siamo pur sempre e comunque tutti appassionati di musica ad ogni livello), ma non come target di cui parlare su Going Solo. E’ ovvio quindi che la cosa che più ci può fare felici e che, grazie anche a noi, le band di cui parliamo abbiano poi realmente un riscontro in termini di successo. Citi gli Alpaca Sports che, oltre ad essere ottimi musicisti di cui abbiamo parlato sulle nostre pagine, sono anche amici e persone che mi stanno a cuore. Se finissero su major e riempissero le arene sarei contentissimo per loro e il mio giudizio sugli Alpaca Sports persone e musicisti non cambierebbe di una virgola. Se poi però faranno un singolo o un disco che non mi piace, sarò però il primo a riconoscerlo, indipendentemente dal fatto che abbiano raggiunto il successo o meno.

 

Che cos’ha la Svezia di così speciale? Perché tantissime di queste band provengono da lì? 

Massimo/Luca: non è soltanto la Svezia ad affascinarci (benchè da sola sia una tra le maggiori esportatrici di musica), ma proprio la Scandinavia in generale. Innanzitutto, di base, le nostre fascinazioni non sono diverse da quelle di (immaginiamo) chiunque viva nel sud dell’Europa e sono legate allo stereotipo di questa terra migliore di quella in cui viviamo, dove tutti sono belli, ci son contributi statali per qualunque cosa, una situazione economica stabile, si sta benone e così via. Restando poi in ambito prettamente musicale, siamo particolarmente legati a tutto ciò che amplifica e rende magico questo stereotipo. Pensa alla leggendaria scena balearica di Göteborg, coi vari Air France, Boat Club, The Embassy, Studio, etc. È durata pochissimo ma continua tuttora ad influenzare il 99% della musica pop che vien fuori dalla Scandinavia. Ebbene, crediamo sia una cosa incredibile che da certe latitudini – che portano, di fatto, ad essere circondati da un freddo porco e a vivere ogni giorno con più buio che luce – vengano fuori i dischi più caldi, estivi, sognanti e che predicano lo “star bene” dell’intero pianeta.

 

Parlando invece del mercato italiano: come siamo messi? È vero quello che dicono tutti, che siamo ormai ostaggio delle cover band, oppure c’è qualcosa che si muove anche da noi? 

Marco: credo che negli ultimi due anni ci sia stata un’inversione di rotta e un consistente aumento di interesse nei confronti della scena indipendente italiana. Il proliferare di nuove band ha fatto bene al movimento e stiamo iniziando ad affacciarci anche all’estero con proposte che ricevono riscontri e apprezzamenti (penso ai vari His Clancyness, Be Forest, Brothers In Law e Soviet Soviet, ma ci sono anche parecchi altri nomi). Rimane però un problema culturale di fondo che è radicato e difficilmente estirpabile: finchè la televisione e le radio nazionali si ostineranno a proporre i prodotti da talent, Ligabue e Vasco Rossi, o il primo rapper col bel faccino che gioca a fare il gangster e le persone accetteranno questo tipo di modelli senza la volontà di approfondire attraverso una ricerca più personale, non se ne uscirà mai davvero e non potremo mai competere a livello internazionale. Tutto questo va poi a scalare anche sui cachet delle band cosiddette indie nostrane che valgono spesso meno della metà di quelli delle cover band perché, purtroppo, sono queste ultime che ti riempiono davvero i locali. 

 

Personalmente gradirei anche un affondo sui festival. Quello che noto io è che siamo terribilmente indietro: all’estero abbiamo il Primavera, il Coachella e altre cose più piccole ma con bill ottimamente assortiti. Da noi, se fanno qualcosa, si ripiega sempre su nomi enormi, di facile presa commerciale, e quasi mai su act meno conosciuti forse, ma di sicuro valore. Come se il nostro pubblico conoscesse solo quello che passano Rock TV e Virgin Radio. Siete d’accordo? 

Marco: è lo stesso discorso di cui sopra. Il problema culturale è troppo grande, i media più tradizionali fanno il loro gioco proponendo quello che il pubblico medio vuole sentire e, allo stesso tempo, i costi che stanno dietro a un festival sono enormi e chi organizza non può permettersi di sbagliare. Questo fa sì che se in Italia vuoi far girare certe cifre e fare certi numeri, devi forzatamente chiamare nomi di facile presa commerciale. Ci sono però piacevoli e ben organizzate iniziative come Ypsigrock (forse ciò che in Italia si avvicina di più al concetto vero di Festival) e A Night Like This Festival che tentano, con i pochi mezzi a disposizione, di dare una reale alternativa con il format 2-3 giorni consecutivi, 2-3 palchi. Esistono poi anche tante altre realtà come ad esempio il Radar Festival di Padova che operano però attraverso il sistema della “rassegna”, con mesi interi di programmazione e ottimi nomi.

 

Vorrei chiedervi qualcosa riguardo a due nomi che quest’anno sono stati sulla bocca di tutti: Daft Punk e Arcade Fire. Che ne pensate? I loro ultimi lavori hanno meritato tutto questo successo? Personalmente penso di sì per i secondi. I primi li trovo molto sopravvalutati… 

Andrea: quando si fa riferimento a nomi di quel calibro è difficile parlare di sopravvalutazione o meno, credo sia una questione personale di aspettative. In molti avrebbero voluto ascoltare un secondo Discovery oppure un simil-Funeral, tanti altri ne sarebbero usciti con un “uff è sempre la solita solfa dei Daft Punk/degli Arcade Fire”. In questo c’è da dire che la loro scelta è stata se non originale, quantomeno ragionata: si sono affidati a producer amici ben diversi da loro che hanno adattato il loro sound originario alle influenze personali. Ne è uscito un “Random Access Memories” che ha nei suoi pezzi principali i suoni di Pharrell, Moroder, Neil Rodgers e Panda Bear mentre Reflektor ha le caratteristiche stilistiche proprie che James Murphy ha sviluppato negli LCD Soundsystem: i pezzi sono secchissimi (scusa ma non riesco a trovare termine meno appropriato), con focus prevalente sulla sezione ritmica e sulle tastiere, e parti di chitarra solo abbozzate. Personalmente ti posso dire che apprezzo di più Reflektor appunto per questo lavoro in produzione, ma davvero qui si va sul parere personale, in generale parlerei di due dischi ben fatti, anche se non sono i rispettivi capolavori.

 

Riguardo invece a un grande nome del passato: gli Smiths, tra i padri fondatori di un certo tipo di pop e gruppo per cui esco letteralmente di testa. Che ne pensate? Hanno ancora qualcosa da dire al panorama musicale di oggi? Varrebbe la pena farli conoscere agli adolescenti di oggi? La faranno mai questa benedetta reunion, secondo voi? 

Luca: con noi vai sul sicuro, sono alla base di tutto quello che ascoltiamo e (parlo per me) tra i gruppi che più mi hanno avvicinato alla musica in generale. Mi pare scontato l’apporto che hanno dato e che ancora daranno in futuro, pensa a qualsiasi gruppo indie-pop di stampo 80s inglese in circolazione ora, il nome Smiths circola in qualsiasi recensione. Non farli ascoltare agli adolescenti di oggi potrebbe essere un crimine contro l’umanità. Per quanto riguarda la reunion dubito si attuerà mai. I dissapori nel gruppo, soprattutto fra Marr e Moz, sono ormai noti da tempo, e Morrissey è ormai talmente pieno di sé da essere quasi saturo. Dubito possa acconsentire alla possibilità di raggiungere un qualche tipo di compromesso con gli ex membri.

 

Per finire, tra le innumerevoli band che ascoltate e che avete recensito sulle vostre colonne, ne nominate tre di cui non si può assolutamente fare a meno? E spiegateci anche perché… 

Esageriamo e te ne diciamo addirittura sette (uno a testa) che, secondo noi, esploderanno a breve: IYES, Fickle Friends, Broods, Adult Jazz, Yumi Zouma, Wet e Ben Khan. 

 

Che dire? Andate su www.wearegoingsolo.com  e fate partire gli ascolti: non ve ne pentirete.