Nel tunnel della vita si entra pensando sia anche quello dell’amore. Solo a metà del viaggio ci si accorge di essere entrati in un tunnel dell’orrore.
Nel Tunnel di via Sammartini, la strada più lurida e spaventosa di Milano, che nessuno è mai riuscito a ripulire veramente, dove si aggiravano un tempo zombie, senzatetto, possibili stupratori e scarti assortiti della bella società, ci entriamo cercando una benedizione, l’ultima possibile. Lo scenario intorno è da Gotham City, o da Blade Runner con quelle fabbriche abbandonate e cadenti. Dentro però ci accoglieranno i monaci del rock, i santi del dopo apocalisse, le voci gregoriane che dal medioevo prossimo venturo in una specie di ritorno al futuro offrono consolazione e redenzione dai peccati.
E’ vero, non c’è più Tim Smith a cantare, la sua voce meravigliosa che sapeva lenire ogni ferita dell’anima è rimasta da qualche parte nel Texas a cercare chissà cosa. Loro invece ci sono tutti. E da come appaiono sul piccolo palco, le luci proiettate dietro di loro sul pubblico che riempie ogni angolo del locale, sono solo delle silhouette in ombra che nascondono i volti. Perché questo sono oggi i Midlake, servitori della canzone anonimi a cui non interessa mettersi in mostra, lontani milioni di miglia da qualunque concessione all’entertainment, umili monaci del rock che armonizzano in coro nel buio. E quelle voci così stupendamente all’unisono, senza una vera voce solista, ci sorprendono subito ancora una volta, meglio di una volta: è davvero un coro che si innalza dal buio cercando di aprire uno squarcio nel soffitto, verso la luce, fuori del tunnel.
Così anonimi che per mezz’ora buona prima del concerto se ne stanno sul marciapiedi fuori del locale a parlare tra di loro e nessuno li riconosce o importuna. Li abbiamo visti in una afosa sera di luglio sulle rive del lago putrido di Milano, lottando con le zanzare tossiche e un impianto scalcinato; li abbiamo visti nella meravigliosa cornice antica della Roundhouse di Londra, dove ancora si aggirano i fantasmi di Jimi Hendrx e Jim Morrison che qui una volta erano di casa. Li abbiamo visti davanti a poche centinaia di spettatori distratti e davanti a migliaia di entusiasti, ma loro non sono cambiati mai.
Questa sera, nel tunnel del dolore, ci presentano la loro antifona, “Antiphon”, l’ultima preghiera senza Tim, ma il risultato è lo stesso. Quasi due ore di devastanti improvvisazioni soniche e psichedeliche grazie alla chitarra benedetta di Joey McClellan, il basso poderoso e instancabile di Paul Alexander, il miglior bassista sulla piazza dai tempi di Rick Danko, la batteria deflagrante di Mckenzie Smith, due ore di canti sussurrati come i frati di un coro perduto in un monastero nascosto nelle nebbie della Cornovaglia, due ore di consolazione e di canzoni bellissime, con una conclusione, Head Home, di quasi dieci minuti di devastazione cosmica, spiritualità elettrica, preghiera ancestrale. L’effetto è straniante: echi di popoli antichi, litanie funebre per un mondo che non esiste più, una nostalgia insostenibile spezzate da chitarre in feedback e riff debordanti.
Fuori, quelle strade adesso fanno meno paura e i monaci del rock si fermano a parlare con chi li riconosce, in mano un sacrilego drink e un sorriso per chi ha voglia. L’abbraccio più bello, quello di chi regala due ore di musica per rendere sostenibili quelle ferite che, aperte e sanguinanti, fanno passare la luce anche se non te ne accorgi più, accecato come sei da una vita che disumanizza sempre di più e annega la domanda. Non ascoltarli se sei triste, mi diceva una amica in un’altra vita, le loro canzoni sono talmente struggenti che possono fare male. Ma la loro è una tristezza che purifica. I Midlake sono ancora la cosa più bella capitata alla musica rock negli ultimi dieci anni.