La stagione invernale dei Teatri del Maggio Musicale fiorentino sta terminando con la messa in scena de La metamorfosi’ di Silvia Colasanti  (classe 1974)’opera della solitudine in tre parti ’ (un atto unico di novanta minuti)  composto su libretto di Pier’Alli (tratto dal racconto di Franz Kafka. Pier’Alli ha anche curato regia, scene, costumi, luci e video.  Il mese prossimo a Bologna sarà in programma Qui non c’è perché di Andrea Molino, classe 1964). La prossima stagione della San Francisco Opera sarà La Ciociara di Marco Tutino, la cui opera Senso è reduce da grandi successi all’Opera Nazionale di Varsavia, ma è stata inspiegabilmente cancellata dal cartellone del Teatro Verdi di Trieste, che pur avrebbe esigenza di qualche titolo che porti pubblico in teatro e soddisfi i critici. 



Sia Silvia Colasanti sia Andrea Molino sia Marco Tutino sono molto eseguiti all’estero. Tutino (classe 1954) è un notissimo; da anni compone teatro in musica in inglese (ad esempio The Servant) per un pubblico internazionale. Si pensi al successo mondiale di Three Mile Island di Molino, sull’incidente nucleare in Pennsylvania nel 1979, nel marzo 2012 allo ZKM – Centre for Arts and Media a Karlsruhe con i Neue Vocalsolisten Stuttgart ed il Klangforum Wien – opera vista ed ascoltata in vari Paesi ma in Italia accolta fuggevolmente al Teatro India. 



Silvia Colasanti ha avuto notevoli affermazioni e onorifici di enti ufficiali all’estero più che in Italia. E’ probabile che La metamorfosi, nonostante abbia un libretto in italiano, si vedrà ed ascolterà in Germani, Francia e Stati Uniti prima di approdare in teatri (come il ‘Malibran’ di Venezia e quelli di alcuni circuiti ‘di tradizione’) con le dimensioni giuste per accoglierla. Tutto ciò indica che mentre dieci su tredici fondazioni liriche hanno dovuto fare ricorso alla ‘legge Bray’ per aiuti straordinari al fine di evitare procedure di liquidazione, la nuova opera italiana è in buona salute. Specialmente da quando ha abbandonato gli stilemi musicali e politici di Darmstadt e si affida ad argomenti che il pubblico ‘sente’ (specialmente se tratti da narrativa di successo (od anche da film) ed utilizza un lessico musicale eclettico ed accattivante.



Veniamo a La metamorfosi, commissionata dal Maggio Musicale Fiorentina e presentata per poche sere , con grande successo, nel 2012, ora entra ‘repertorio’; la fondazione lirica della città del Giglio ha metabolizzato che potrà sopravvivere solo se segue il percorso tracciato da La Fenice di Venezia e diventare un teatro di semi-repertorio con 180-200 alzate di sipario l’anno ed un cartellone attraente non solo per i 350-400.000 residenti ma per il vasto pubblico di turisti.

Il libretto segue il racconto di Kakfa. All’inizio del Novecento, in una Praga nebbiosa, Gregorio Samsa, impiegato di concetto in una ditta commerciale, privo di una moglie, ma con a carico padre pensionato, madre casalinga e sorelle ‘zitelle, , depresso dall’arroganza dei superiori e dalla solitudine, una mattina al risveglio scopre di essere diventato un insetto di dimensioni umane ed in grado di parlare ma con voce alterata. In un primo momento, la famiglia – soprattutto la madre – cerca di dargli sollievo. A poco a poco, tutti (anche i suoi cari) gli voltano le spalle anche perché,  dopo che Gregorio  è stato licenziato, hanno trasformato l’appartamento in una pensione ed i loro ‘clienti’ scappano alla vista del ‘mostro’ , il quale pur trova sollievo nella musica. Viene chiuso in una stanza dove gli viene portato cibo, che rifiuta. Sino a morire d’inedia. Ed essere gettato nella spazzatura. In Kafka questo quadro crudele non ha spiragli di speranza. 

Nel lavoro di Colasanti e Pier’Alli, c’è, invece, un forte senso di pietà , non solo da parte delle madre, per un Gregorio sempre più isolato ed escluso. Una pietà mostrata non solo dell’amore del ‘mostro’ per la musica ma da una scrittura orchestrale e vocale . Il declamato (a tratti melologo) scivola in ariosi, in duetti e terzetti ed anche concertati, nonché in preziosi intermezzi colmi di melanconia. La scrittura ricorda l’espressionismo di Léos Janácek il quale all’inizio del Novecento uscì dal romanticismo e dal post-romanticismo, nonché dal wagnerismo di maniera, grazie ad una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori Anche i tempi ed i metri si alternano con  frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento e del Novecento storico. Ci sono echi di musica sacra come il  coro fuori scena quasi ‘a cappella’ (in quanto amplificato e con un delicato accompagnamento musicale). Nella scelta dell’organico orchestrale per questa sua travolgente partitura composta,  Silvia Colasanti ha compito una “sua” metamorfosi: ha trasformato l’effetto timbrico di ciascuno strumento o gruppo strumentale, nessuno eccettuato, in un’organizzata semantica del terrore, dell’orrore e del ribrezzo. Al di sopra di questo universo sonoro, ma veloce e fuggevole, come una frettolosa punteggiatura, lancia penetranti lamenti di dolore. Il quintetto d’archi diventa evocatore di spavento allo stato puro, e di tensione incontenibile come dinanzi a una porta che si sta aprendo sulla visione del mostro.

Marco Angius concerta un ensemble di  una dozzina di solisti, che nel piccolo ma acusticamente perfetto Teatro Goldoni (nei vicoli nei pressi di Palazzo Pitti), raggiungono, specialmente nelle dissonanze sonorità straussiane. Sette i solisti vocali  cui aggiungere un attore ed un danzatore. Un’équipe ben affiatata dove spiccano Roberto Abbondanza (il padre) e Gabriella Sborgi (la madre). Spettacolo di grande emozione da cui si esce con grande pietà per gli esclusi.