Alla fine ha capitolato anche lui. All’indomani dell’inizio del nuovo tour, partito a gennaio dal Sudafrica, Bruce Springsteen, d’accordo col fido manager Jon Landau, ha deciso di mettere a disposizione dei fan le registrazioni dei concerti, catturate in maniera professionale e scaricabili dal sito ufficiale ad un prezzo decisamente contenuto.
La moda dei bootleg esiste da quando esiste la musica rock e si è andata sviluppando di pari passo al migliorare degli strumenti di registrazione. Quanto più un artista concepisce il concerto come un evento unico, dove i pezzi vengono stravolti, allungati da improvvisazioni infinite, dove le setlist cambiano di sera in sera, allora il possesso di una registrazione dell’evento, seppure di qualità scadente, diventa un must per i fan più accaniti del musicista in questione.
Non è dunque un caso che i primi a voler offrire al loro pubblico prodotti di prima qualità siano stati i Grateful Dead, una band che ha sempre concepito il live show come la dimensione primaria della propria esistenza e che ha sempre goduto di una community di fan fedeli e appassionati. Negli anni, anche altri nomi storici come Phish (che, guarda caso, dei Dead sono sempre stati considerati gli eredi), Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Kiss o Marillion, hanno registrato e venduto le loro performance. Indubbiamente però, i campioni di questo fenomeno sono i Pearl Jam: la band di Eddie Vedder e Stone Gossard ha pubblicato pressoché ogni show che ha tenuto a partire dal 2000, sia in formato fisico che in mp3. E con le scalette “impazzite” che i cinque di Seattle amano offrire al proprio pubblico, l’uscita di un nuovo bootleg è sempre un motivo di grande interesse e alimenta a più non posso il collezionismo.
Adesso, dicevamo, lo ha fatto anche Springsteen. Erano anni che i fan ci speravano e lo facevano a ragion veduta: i suoi concerti sono da sempre tra i più contrabbandati e alcuni bootlegger (come lo svedese Crystal Cat) sono ormai personaggi leggendari. Forse si potrebbe obbiettare che, siccome sono anni che il codice etico in vigore tra i fan proibisce di sborsare anche un solo euro per l’acquisto, pagare 7.70 euro per scaricare degli mp3 costituisca una mossa quanto meno un po’ azzardata.
Ma non è detto: tralasciando il fatto che, una volta che della musica approda online, ci sono molti modi per bypassare il pagamento, la ricompensa per chi mette mano al portafogli dovrebbe essere una qualità sonora decisamente superiore a quella di una registrazione rubata in chissà quale modo.
Ecco, purtroppo bisogna ammettere che su questo punto c’è ancora da lavorare: i concerti sudafricani suonavano decisamente male, tanto che il ritornello “Possiedo almeno una cinquantina di suoi concerti registrati meglio” era una costante in cui ci si imbatteva spesso nei vari forum dedicati. Dalle prime date australiane in avanti c’è stato invece un progressivo miglioramento e adesso si ascolta tutto molto volentieri, anche se siamo lontani dal livello offerto dai Pearl Jam, tanto per capirci.
Passiamo ora alle cose interessanti. Perché l’ascolto dei primi 14 concerti di questo tour ci ha permesso di tastare il polso di Bruce Springsteen e della più recente incarnazione della E Street Band, arricchitasi del contributo di Tom Morello, che tanto ha diviso critica e pubblico all’indomani dell’uscita di “High Hopes”.
E lasciatemi dire che questa band non ha mai suonato così bene. Le date sudafricane sono servite da rodaggio, con scalette tutto sommato prevedibili e collaudate ma già lì l’energia sprigionata lasciava prevedere, di lì a poco, qualcosa di incredibile. Detto fatto, da Perth in avanti, il passaggio nella terra dei canguri ha visto un continuo crescendo che ha lasciato a bocca aperta tutti, anche i fan più navigati.
A conti fatti, il punto di forza di questa band sta proprio in ciò che sino ad ora non ci aveva mai convinto fino in fondo, vale a dire la sezione fiati.
Mi è capitato più volte di scrivere del Wrecking Ball Tour, nell’ultimo anno, e mi sono sempre espresso in termini positivi, per quanto riguarda la band. Vero però che, sotto sotto, è sempre stata forte la tentazione di considerare questa E Street Band come una sorta di falso storico, un gruppo di musicisti talmente diverso da quello dei tour del passato, talmente differente nelle intenzioni di fondo, che alla fine ci eravamo convinti, forse definitivamente, che “quella vera” l’avremmo per sempre rimpianta.
Invece, i ripetuti ascolti in cuffia hanno fatto quello che la partecipazione ai concerti delle due passate stagioni non ha saputo fare. Sono costretto a dichiararlo, ormai: questa E Street Band è un’autentica macchina da guerra.
Il wall of sound creato dai fiati, dall’organo di Charlie Giordano e dal violino di Soozie Tyrrell è spettacolare, è il modo con cui nel 2014 questo gruppo di musicisti ha scelto di sprigionare potenza ora che, a 64 anni d’età, Mr. Springsteen non è più comprensibilmente in grado di spingere come una volta.
Se è pure vero che molti si lamentano che le chitarre sono meno in primo piano, è altrettanto vero che forse non ce n’è più così bisogno. Al di là del fatto che adesso c’è Tom Morello e che si sente (piaccia o non piaccia, la sua presenza ha cambiato un po’ le alchimie), la E Street Horns è decisamente più amalgamata all’interno delle canzoni, dà loro nuova personalità, non è più una semplice verniciatura, come poteva accadere nel tour di Tunnel of Love (dove era più che altro funzionali ai brani del nuovo disco) o in quello di Working on a Dream, dove per vaste porzioni del concerto rimaneva inoperosa
Adesso l’impressione è che Springsteen abbia ripreso in mano tutto il proprio repertorio e si sia chiesto: “Bene, ho queste canzoni e una band di quindici elementi. Come gliele faccio suonare?”
E la risposta che si è dato ha dominato in lungo e in largo questi concerti australiani e neozelandesi. Meno spazio alle richieste e via ad uno show più coeso e strutturato, dove i cambi di setlist sono al servizio dello spettacolo, non per forza dei pruriti istintivi di una certa fetta di pubblico.
In effetti, scalette così belle e variegate non le avevamo mai viste, all’inizio di un tour. Si punta sempre tantissimo sui dischi storici, che sono stati eseguiti per intero in diverse date. Born in the USA è sempre il più rappresentato ma a Sydney è toccato anche a Darkness on The Edge Of Town, ad Auckland a Born to Run. Presi singolarmente, i pezzi di questi album hanno comunque sempre fatto la parte del leone in quasi tutti gli show. Bruce si è reso conto che sono quelli che la maggior parte della gente vuole sentire, sono quelli su cui ha costruito il suo successo, volente o nolente. E sta pagando loro un pedaggio doveroso, molto di più che negli ultimi anni.
Ma non mancano neppure le chicche, che quest’anno non sono per forza di cose richieste del pubblico che vengono più o meno improvvisate, ma pezzi pianificati e preparati con la band al completo. È stato il caso di “Back in Your Arms”, splendida outtake dei primi anni novanta, suonata l’11 febbraio ad Adelaide in una suggestiva versione dilatata, in cui fiati e tastiere le hanno donato un’atmosfera tutta nuova, che ne ha accentuato la componente soul.
Bellissima anche “Human Touch”, eseguita diverse volte in queste date, che ci convince sempre di più che quel disco, suonato dalla E Street Band, sarebbe stato tutt’altra cosa.
Oppure l’acustica “Terry’s Song”, scritta nel 2007 in occasione della scomparsa dell’assistente personale Terry MacGovern. L’aveva suonata solo al suo funerale, l’ha tirata fuori l’8 febbraio a Perth, in una versione che ha sicuramente commosso i presenti.
E ancora, “Fade Away”, una delle track più suggestive di “The River”, suonata a richiesta a Brisbane, durante quello che è già divenuto lo show per eccellenza di questo tour.
Già, perché dopo avere omaggiato gli australiani Bee Gees aprendo con una pazzesca versione di “Stayin’ Alive” (musicalmente, tra i momenti più alti di queste prime date ma non solo) e dopo avere deliziato i presenti con versioni incandescenti di rari brani della prima ora come “It’s Hard to Be a Saint in the City” e “Does This Bus Stop At the 82nd Street”, il nostro si è lanciato nell’esecuzione integrale di “The Wild, the Innocent and The E Street Shuffle”, il suo secondo disco. Un’impresa tentata solamente nel 2009 al Madison Square Garden di New York e che qui ha raggiunto livelli da apoteosi, proprio grazie a questa band allargata, che ha reso un’esperienza unica le improvvisazioni strumentali di “Kitty’s Back” e “Incident on 57th Street”.
E anche per quanto riguarda le cover, quest’anno Springsteen si sta superando in quanto ad originalità di scelte. A Perth, la patria di Bon Scott, indimenticato singer degli AC/DC, ha scelto di iniziare con “Highway to Hell”, un pezzo stilisticamente e soprattutto vocalmente lontanissimo dalle sue coordinate. Eppure, l’ha fatta talmente sua che difficilmente qualcuno che non conoscesse l’originale (sempre che quel qualcuno esista) si sarebbe accorto della differenza. Di “Stayin Alive” abbiamo già detto ma l’apoteosi si è raggiunta certamente durante le due serate ad Auckland, in Nuova Zelanda. In quell’occasione Bruce si è presentato da solo, chitarra acustica e armonica e ha attaccato “Royals”, della giovanissima Lorde, che proprio lì è nata e il cui esordio “Pure Heroine” ha appena fatto strage di Grammy. Ma non di presa in giro si è trattato, bensì di toccante omaggio da artista ad artista, nonostante l’enorme differenza anagrafica. Voci dicono infatti che la diretta interessata, presente allo stadio, si sia profondamente commossa.
Insomma, una band in forma smagliante, con un Max Weinberg mai così devastante dietro le pelli e un Nils Lofgren che quando viene lasciato a briglia sciolta non fa prigionieri (ascoltare la “Prove it All Night” di Adelaide, per rendersene conto). In tutto questo, Springsteen si dimostra anche in splendida tenuta vocale: probabilmente il supporto di un così gran numero di musicisti è congeniale e adesso certi brani possono essere davvero cantati anche da qualcuno che non abbia più trent’anni. Insomma, sono talmente belli, questi primi concerti, che ci si entusiasma anche per episodi ormai triti e ritriti, come “The Rising” o “Hungry Heart”, mentre classici come “No Surrender” o “Badlands” sono fucilate tali da buttare giù lo stadio.
E i brani di “High Hopes”? Non sono molti, a dir la verità, ma fanno la loro figura: l’accoppiata “High Hopes”/”Just Like Fire Would”, posta nelle battute iniziali, funziona a meraviglia mentre “Heaven’s Wall” ha davvero un tiro micidiale e di “The Ghost Of Tom Joad” è stato già scritto fin troppo. Qua e là abbiamo ascoltato anche altre cose, ma l’impressione è che non sia uno spettacolo costruito su questo disco: i brani ci sono, così come quelli di “Wrecking Ball” (a proposito, la title track dal vivo diventa sempre più bella col passare del tempo) ma è evidente che l’idea di queste serate sia quella di slegarsi il più possibile dalle logiche promozionali.
In generale, si è detto e scritto molto sui bootleg ufficiali: Samuel Reynolds, ad esempio, sosteneva che alla lunga rovinassero la magia legata all’unicità dell’evento, rendendolo disponibile e riproducibile a chiunque in qualsiasi momento. Ma in fin dei conti lo si diceva anche del vinile, quando ha iniziato a diventare un bene diffuso.
Personalmente, non condiviso questa opinione. Chi ama davvero un artista vorrà a maggior ragione sentirlo il più possibile dal vivo, vorrà seguirne le maturazioni o le regressioni, verificare come un pezzo invecchia col proprio autore oppure, più semplicemente, ascoltarsi in versione decente l’esecuzione di quel brano raro che “ha suonato proprio la sera che non c’ero”.
Per cui, complimenti a Springsteen e a Landau che finalmente hanno fatto quello che tutti desideravano da loro. E complimenti soprattutto alla E Street Band, che ha inaugurato il servizio mettendo in piedi uno spettacolo di questo livello.