Talmente bello da disorientare ad ogni ascolto, così spregiudicato da riaprire ogni crepa rimarginata con il mestiere che contraddistingue il nostro navigare a vista. Non sembra esserci altra via. Il cuore che si è dato a lungo assente per male di vivere incurabile, in questo nuovo lavoro di Suzanne Vega vive la sua restaurazione, la sua riconquista con quella violenza tenera ed audace come sa essere solo quella di un amore profondo e ostinato. 



In tutto ciò la memoria fa il suo lavoro, scorre all’indietro, racconta e interpella. Fa riemergere di schianto la Vega intimista, fragile e solitaria degli inizi, quella del fascino sperduto e intensamente musicale dell’eponimo album d’esordio (1985) a suon di fiabe dal gusto antico debitrici del grande folk cantautorale britannico.  



Quella stessa Vega che con “Solitude Standing” accostava con un certo gusto cantautorale e fregola pop dei profondi ’80. Quella che con le sonorità urbane e infuocate dei due lavori prodotti nel decennio successivo gettava un ponte tra scena rock newyorchese e nuovi furori provenienti da Seattle. Che in “Songs in Red and Gray” elaborava la crisi seguita al fallimento del primo matrimonio. E Infine la lady tenebrosa e notturna che marcava l’uscita vagamente noir dell’astuto e manierato “Beauty & Crime”.

E riavvolto il nastro quella memoria si rifà sotto, riemerge, balza prepotentemente in avanti consegnando la Vega a questo decennio dopo un silenzio discografico di sette anni. “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles” – ottavo album in studio – è questa grande memoria, è la terra riemersa di un senso di sé ritrovato e riletto oltre l’immagine. L’agognata ricomposizione di una bellezza sotto la lente di una nuova tensione.



Da un lato la rinnovata complicità del chitarrista alter ego Gerry Leonard che condivide la scrittura del disco prendendo le redini di arrangiamenti e produzione. Dall’altro un sound che ridefinisce l’ossatura forte ed energica di una formazione imperniata su chitarre, basso e batteria, con armonium ed archi a sottolineare le fasi più febbrili del tessuto sonoro. Elementi che concorrono a plasmare un lavoro che si dipana con la potenza e la perfezione di un lessico musicale forbito e senza sbavature come raramente è dato sentire in questi anni desolati e orfani di cose grandi.  

La storia, il movente creativo – come raccontato dalla protagonista in varie interviste – è l’esplorazione di slanci, sogni, paure dell’umano, le domande definitive ed estreme che non mancano di affacciarsi in chi prende sfrontatamente sul serio la propria esistenza. Niente di nuovo visto da fuori, tutto di nuovo visto e vissuto dal profondo dell’esperienza personale dell’artista. E con la musica a far da discrimine ultimo nella resa originale di questo slancio antico e nuovo. 

In apertura Crack in the Wind e Fool’s Complaint agiscono in simbiosi riportando alla luce il songwriting agile e pimpante della Vega seconda maniera. Cantautorato e pop giocano in parallelo ammiccando e tenendo botta. Quello stesso senso di gradevolezza tra il leggero e il riflessivo che fa capolino pure in una Don’t Uncork What You Can’t Contain rivestita di un break rigenerante di archi che ne spezza l’uniformità. O ancora in maniera più convincente nella bellissima apertura chitarristica che dà linfa alla sezione centrale di Silver Bridge.

Un passo più in là ed ecco la Vega caustica e noir della graffiante I Never Wear White (ricordate If I Were a Weapon?). Incedere marziale e velenoso, anima contesa tra hard rock e urban blues, virate incendiarie di chitarra elettrica tengono sul chi vive in un brano che contrappone allo stereotipo del candore femminile la crudezza antiromantica di realtà distorte e fuori dalla scena.  

Il perfetto disco di sintesi di una onorata carriera? Si direbbe di sì. Reduce da un quindicennio di alti e bassi con un’invadenza marcata di questi ultimi, la nostra riesuma una magia perduta da tempo. Magia che scorre con la grazia di un’inventiva  e di una fluidità tali che la grandezza e il mistero della musica sembrano letteralmente aver tramato per imporre un nuovo incanto chiamando la Vega a far da testimone.

Così mentre Portrait of the Knight of Wands fa risplendere quello che era il respiro profondamente musicale e puro dell’esordio, da par suo Jacob and The Angel provvede a dirottarlo in aree distanti, tra suggestioni di danza popolare iberica e arie melò.

Ma il meglio è forse nella successione Song of The Stoic – Laying on Hands/Stoic 2. La prima un intaglio del tipico storytelling della nostra su un tessuto che alterna country blues elettro-acustico e drammatiche distese di archi. La seconda, un forcing dove cantautorato rock graffiante e metropolitano del tema conduttore viene spezzato da un’irresistibile accelerato soul in coda.  

Chiude Horizon (There is a Road), e l’incanto si fa compassione. Il tipico input delicato del canto si alterna a una sua espansione modulata e struggente, un ultimo pensiero dove speranza e monito contro ogni proiezione illusoria di falsa speranza stanno e cadono insieme. La chiamata alla vita dal pianto e dal dolore è quella che non mente. Esemplare.

Tales from the Realm of the Queen of Pentacles” è tutto questo in modo forte e radicato, senza mezze misure.  E’ il riaffacciarsi ostinato di un amore contrastato, abbandonato e rifiutato, sfidato con rabbia e arroganza, persino maledetto per la gran parte dell’esistenza, incalzato senza sosta fino ad un cenno di riconciliazione. Infine ritrovato sotto nuove spoglie, come in una seconda venuta che è anche nuova visione.  La grande cantautrice americana, alle soglie dei cinquantacinque anni, si ripresenta nientemeno che con questo carico di coscienza.