Cosa hanno in comune Gioacchino Rossini e Giuliano Ferrara? L’amore per la buona tavola, verrebbe  spontaneo rispondere. C’è un nesso  più sottile; ambedue nascono in un contesto rivoluzionario ma con il passare degli anni diventano ciò che, nel linguaggio odierno,si dice  “teocon”. Rossini, figlio di rivoluzionario e cresciuto in un clima addirittura repubblicano (nello Stato Pontificio a cavallo tra Settecento ed Ottocento),  diventò “teocon” abbastanza presto;  a 28 anni, con il Maometto Secondo” napoletano (accolto, peraltro, con un clamoroso insuccesso il 3 dicembre 1820), lo era apertamente, ma già  nel 1813 con L’Italiana in Algeri e nel 1814 con Il Turco in Italia, aveva mostrano un’indole tutt’altro che simpatetica nei confronti dell’islam; in una Penisola allora in gran parte sotto il dominio francese, prese posizioni patriottiche inaudite, e del tutto insolite, per un giovane musicista povero in canna ed all’inizio della carriera. Siamo mille miglia distanti da Il Ratto dal Serraglio di un giovane Mozart, cattolico e massone, nonché imbevuto dell’illuminismo settentrionale che aveva gustato a Milano.



Queste riflessioni vengono stimolate dalla prima esecuzione a Roma dell’edizione napoletana del Maometto Secondo con le scene e costumi dell’allestimento presentato a Venezia nel carnevale 2005. In effetti, il compositore sapeva che aveva per le mani un capolavoro ; lo riadattò, sostituendo il ‘finale tragico’ con un ‘finale lieto’, auto imprestato da La Donna del Lago. Tuttavia– ricorda Riccardo Bacchelli nella “Vita di Rossini” – cadde miseramente il Santo Stefano del 1822 alla Fenice; non si ebbe il coraggio di darle neanche la chance di una sola replica.. L’edizione veneziana differisce da quella napoletana principalmente per alcuni  rabberci (culminati con l’interpolazione del rondò “Tanti affetti” de La Donna del lago al posto del “finale secondo”, tragico ed asciutto, del Maometto napoletano). Se l’edizione napoletana ha dovuto aspettare sino al 1983 per essere ripresa, grazie al coraggio di Philip Gossett, Claudio Scimone e Gianluigi Gelmetti , ed essere riconosciuta come uno dei capolavori – forse come il capolavoro sommo- di Rossini, la versione veneziana non è mai stata  riascoltata da quel 26 dicembre 1822.



Cosa c’è di “teocon” nelle due versioni di Maometto Secondo? E come mai se ne avvertono già i germi in “turqueries” spesso classificate come “opere buffe” quali L’Italiana in Algeri e Il Turco in Italia? E perché, non contento degli smacchi al San Carlo ed alla Fenice, Rossini riprese una terza volta Maometto, nel 1826, rendendolo, se vogliamo, ancora più “teocon”, quando lo riciclò come lavoro nuovo di zecca (comunque, lo avevano visto in pochi), per l’Accadémie Royale de Musique e modificando luogo dell’azione e alcune parti del libretto, ne fece Le Siège de Corinthe?



Tralasciando per il momento  gli aspetti musicali – di inaudita modernità e tali da anticipare di quasi cinquanta anni il superamento degli schemi formali e di articolarsi in vaste strutture collegate da un complesso procedimento di elaborazione tematica – , veniamo alla materia. Il libretto non era di uno dei tanti  poetastri prezzolati dagli impresari di teatri lirici, ma di Cesare Della Valle, Duca di Ventignano, nobiluomo e drammaturgo di rango. La fonte di Della Valle – ricorda Bruno Cagli in un saggio di una ventina di anni fa – era una tragedia di Voltaire, Mahomet ou la Fanatisme – un titolo eloquente. Della giustapposizione tra mondo occidentale e fanatismo islamico (l’essenza della tragedia di Voltaire), il Della Valle colse poco e ne fece un’azione drammatica di amore e guerra durante l’assedio di Negroponte da parte delle armate di Maometto Secondo. La musica (non credo che Rossini abbia mai letto il testo francese) ne catturò molto di più: gli schemi formali vengono rotti – si pensi alla lunghissima scena chiamata “terzettone” di proprio pugno da Rossini in persona- proprio per contrapporre due universi incomunicabili. 

Non solo (e qui il testo di Della Vella c’entra un po’) ma il mondo dei tre protagonisti occidentali (Paolo, Anna e Calbo) non è ispirato unicamente al razionalismo laico alla Voltaire: si respira trascendenza sia nelle preghiere degli assediati sia soprattutto nel sacrificio di Anna grazie al quale salva la Patria. L’opera diventa “la sinfonia eroica” di Rossini – la ha acutamente definita così Giovanni Carli Ballola in un saggio di  venticinque anni fa – proprio in quanto al “fanatismo” di Maometto e delle sue schiere viene contrapposto l’afflato di valori liberali e religiosi degli europei. La contrapposizione è naturalmente ancora più forte in   Le Siège de Corinthe; il testo venne rielaborato da Luigi Balocchi e Alexandre Soumet non tanto per aggiungere sinfonie, danze ed altre convenzioni della piazza parigina quanto per un pubblico che faceva il tifo per l’irredentismo greco (dal gioco ottomano) a supporto del quale intellettuali e poeti europei andavano a morire.

Questa premessa storico-politica mi sembra necessaria per commentare il debutto romano – di proporzioni quasi wagneriane (quattro ore di spettacolo interrotte da un breve intervallo). Pierluigi Pizzi ha ben adattato la drammaturgia presentata a Venezia nel 2005 al ‘finale tragico’ della versione napoletana. Sulla scena ci sono le forti passioni (amore, politica, guerra) che animano il libretto di Della Valle (il  migliore avuto da Rossini per le sue ‘opere serie’). Ma essere paiono essere pallide in buca; in breve Roberto Abbado ha dilatato i tempi, specialmente nel primo tempo, facendo mancare le tensioni delle esecuzioni di Scimone, Gelmetti e Kuhn (quello che conosco meglio anche in quanto delle prime due esistono ottime registrazioni). Inoltre, in certi momenti è apparso seguire i contanti più che dare ad essi direzione e coesione. Occorre ammettere che si è ripreso nella seconda parte, specialmente nella lunga scena finale nel cimitero.

Tra le voci una sorpresa: Roberto Tagliavini nel ruolo del protagonista a cui l’opera è intitolata. Sostituisce in molte repliche Alex Esposito, indisposto. E’ un baritono-basso di grande levatura vocale , anche se nella portatura appare più come un bel ‘padano’ che un sensuale ma crudele capo dei ‘maomettani’. Dizione perfetta, fraseggio di livello e grande estensione del registro. Accanto a lui Marina Rebeka, bella e brava soprano lettone, in un ruolo impervio per la drammaticità ed il virtuosismo vocale che richiede con una presenza scenica continua per tutta la durata dell’opera: non fa rimpiangere June Anderson e Cecilia Gasdia il cui nome è associato alla riscoperta di Maometto Secondo, Juan Francisco Gatell è un vibrante Paolo , altro ruolo difficile di tenore lirico di coloratura, Alisa Kolosova , brilla nella ‘grande aria’ di Calvo nella seconda parte, Efficaci sia il coro sia Enrico Iviglia e Giorgio Trucco nei ruoli minori.

A duecento anni circa della prima napoletana, il debutto romano di Maometto Secondo è stato salutato da circa dieci minuti d’applausi.