Da qualche tempo mi succede spesso: ho nostalgia degli anni 90. Non so bene perché, ma mi succede. Forse dipende dal solito fatto, cioè rimpiangere quanto abbiamo vissuto nel passato e considerarlo sempre migliore di quanto stiamo vivendo adesso. Un classico, insomma, della nostalgia umana. O forse dipende dal fatto che da quando siamo entrati nel terzo millennio non è accaduto niente degno di nota.  Sto parlando di musica naturalmente. Del resto di cose successe, purtroppo, dalle Twin Towers alla crisi economica globale, ce ne sarebbe da riempire una enciclopedia. 



Di certo negli anni 90 non avevo nostalgia degli anni 80, quel decennio non mi è mai mancato e credo non mi mancherà mai. Gli anni 70? In quelli ci sono dentro da sempre, praticamente sono una istantanea vivente di quel decennio e vista la musica che girava allora, non me ne pento e ci sto dentro alla grande. Sono sempre fortemente convinto infatti che l’ultimo grande disco della storia del rock sia uscito il 14 dicembre 1979, “London Calling” dei Clash ovviamente.



Se penso invece a questi ultimi tredici anni, a parte le band di cosiddetto neo folk (Avett Bros, Fleet Foxes, Mumford and Sons e chi più ne ha più ne metta) cos’altro è accaduto da farti fermare la macchina mentre hai la radio accesa e dire: accidenti che canzone? Che poi anche questi gruppi tendenzialmente hanno fatto un bel disco e poi niente di che. A me non viene in mente nulla, e infatti siamo sempre qui a lodare i dischi dei grandi vecchi, ormai vecchissimi. Già sapete chi intendo. Degli anni Duemila salvo due canzoni, neanche due dischi interi, però sono due grandi canzoni: England dei National e I and Love and You degli Avett Brothers. Quando escono quelle due canzoni dal mio stereo in macchina, devo sempre fermarmi. Hanno l’epicità e la tensione giusta per spezzare il cuore anche del più incallito bastardo. E Dio sa quanto bisogno abbiamo di canzoni come queste, solo che sembra non ne arrivino più.



No: perdonate, gli anni Duemila ci hanno regalato gli hipster: quando sento quella parola riferita a giovanotti con la barba incolta, gli occhiali da nerd e il rigoroso look alternative indie mi viene l’orticaria. Per un vecchio come me, infatti, hipster saranno sempre Jack Kerouac e Allen Ginsberg e i giovani degli anni 40 e 50. Controllo anche su wikipedia, sia mai che l’anzianità mi confonda: “Hipster è un neologismo nato negli anni quaranta negli Stati Uniti per descrivere gli appassionati di jazz e in particolare di bebop. Si trattava in genere di ragazzi bianchi della classe media, che emulavano lo stile di vita dei jazzisti afroamericani”. Ottimo. Allora leggo anche la voce successiva: “L’hipster postmoderno si professa bisessuale e ottimo conoscitore della lingua inglese e ama appropriarsi dei codici delle generazioni precedenti, ammantandosi di un caratteristico stile rétro. Si serve in negozi di abiti usati, mangia preferibilmente cibo da agricoltura biologica, meglio se coltivato localmente, è vegetariano o vegano, preferisce bere birra locale (o prodotta in proprio) e ama le biciclette a scatto fisso, fixed”. Onestamente non so neanche cosa sia una “bicicletta a scatto fisso”. Ecco, un riciclatore “post moderno”: ma si divertono? In realtà credo che la mia sia solo invidia: io ormai fuori tempo massimo anche per capire come aggiornare il mio i-Phone, connettere l’iPad e avviare l’iPod, loro che sembrano aver capito il senso della vita, con quell’aria con cui ti osservano se, come mi è capitato una volta, fai l’errore di andare al concerto dell’ultimo hipster alla moda. Mi sono sentito come un nero dell’Alabama a un concerto dei Lynyrd Skynyrd, e chi ha la mia età sa chi sono i Lynyrd. Ma poi, che sbadato: gli anni Duemila ci hanno dato anche il low-fi, i cantanti stonati che suonano una chitarra scordata registrandosi il disco nella loro cameretta grazie alle diavolerie tecnologiche di questi ultimi anni. Tristi e finto-iellati, un posto in miniera ci sarebbe anche per loro, volendo. Esagero e chiedo scusa a tutti, anche perché con la crisi del lavoro di oggi giorno penso non si trovi posto neanche in una miniera. Ma mi torna la nostalgia degli anni 90, quello sì.

Gli anni 90 erano stati divertenti, accadevano cose per dirla alla Penny Lane, la meravigliosa Kate Hudson di Almost Famous, che comunque era un film ambientato nel 1973: it’s all happening! Per me che mi ero perso gli anni 60 – nel 68 avevo 6 anni – fu eccitante anche se di anni ne avevo ormai una trentina. Infatti mi ci trovavo bene. C’era un certo movimento, c’erano tanta roba, musicalmente, cose che stanno bene in piedi anche oggi. Avere vent’anni in quel decennio deve essere stato divertente. Io cominciavo a fare il gironalista musicale e tanti protagonisti di questo decennio ebbi anche modo di conoscerli di persona, per cui forse sì, questo è il segreto di ciò che mi lega agli anni 90. Li ho vissuti in pieno. Si era cominciato con il botto fragoroso del grunge che generò un sacco di cose e un sacco di ottime band. Intorno ci girava anche il cinema (Singles-L’amore è un gioco), i libri (Generazione X). Ed ebbero anche la loro bella morte degna di quelle dei Jimi Hendrix e Jim Morrison, quella del povero Kurt Cobain. Solo che Kurt Cobain non morì mentre cercava di sfondare le porte della percezione con l’ultima droga alla moda e un sorriso stampato sul volto, si sparò in bocca con un fucile e non penso che stesse sorridendo in quel momento. Era depresso, e qui forse scatta il secondo motivo per cui mi sento così legato a questo decennio, tanto che ci fu una band italiana che coniò un nome straordinario: Prozac +. Ecco, forse mi manca un Kurt Cobain in questi anni Duemila. Ricordo ancora lo sgomento di quel giorno di aprile del 1994 alla notizia che si era ucciso. Ricordo i grandi servizi sulle riviste musicali con le foto di quei ragazzi che piangevano e provai quello che avevo provato un giorno del dicembre 1980 quando stavo andando a scuola e mi dissero che avevano ammazzato John Lennon. The dream is over per la seconda volta, pensai, ma quante volte si può ammazzare un sogno? Mi manca il suo urlo disperato, la sua rabbia, la sua (impossibile) fuga dalla società e la sua angoscia per essere, come disse brillantemente Douglas Coupeland, l’autore di Generazione X, appartenente alla prima generazione a cui era stato negato il concetto di Dio. Mi mancano le sue chitarre violente e tenere allo stesso tempo e la sua genialità di compositore. 

Poi per fortuna arrivarono le jam band e i figli dei figli dei fiori. Tutto il contrario del grunge, erano una botta di vita solare. Roba che noi abbiamo visto con il binocolo, tanto questo genere musicale è lontano un milione di miglia da qualunque estetica mediterranea, un fenomeno toccato da vicino solo grazie al compianto promoter Carlo Carlini che nella minuscola Sesto Calende portò i Phish – un gruppo che, per intenderci, negli Usa riempiva gli stadi – in una sala da ballo per il liscio con qualche migliaio di neo hippie originali al seguito – made in America, mica imitatori – che si buttarono nudi nel lago inseguiti da una pattuglia di tre carabinieri che non capivano che stesse succedendo. Una scena davvero felliniana, commovente. Bella musica da parte di un sacco di gruppi, troppi da nominare tutti (qualche nome facciamolo: oltre ai Phish, Widespread Panic, Gov’t Mule, Rusted Root, Dave Matthews Band, String Cheese Incident, moe.), buone vibrazioni, ottimismo di risposta al nichilismo grunge. Speranze. Come quelle espresse anche in un altro piacevolissimo revival, l’alternative country di Uncle Tupelo, Jayhawks, Counting Crows. Quando si riscoprivano Gram Parsons, The Band e Neil Young.

 

Ci fu anche il fenomeno delle cantautrici donne, invero un po’ gonfiato, ma forse quello più eclatante da un certo punto di vista. Anche perché molte erano splendide ragazze (concedetemelo). Però portarono aria fresca, si imposero a quegli insopportabili maschietti finalmente dopo che per decenni o eri una tossica come Janis Joplin o le donne non contavano (la musica rock è sempre stata estremamente maschilista) e per un po’ ci diedero ottimi dischi dove tornavano le chitarre acustiche, le belle melodie, si giocava con il vecchio folk buttandolo nel pop in maniera egregia. 

Tra le tantissime (se volete approfondire: Liz Phair, Alanis Morissette, Juliana Hatfield, Sarah McLachlan, Fiona Apple, Jewel, Joan Osborne, Lisa Loeb, Indigo Girls, Melissa Etheridge, Aimee Mann, k.d. lang, PJ Harvey, Meredith Brooks, Dar Williams, Beth Orton, Sheryl Crow e tante, tante altre: le ho intervistate e conosciute quasi tutte, e di quasi ognuna di loro mi sono innamorato, ma questo un bravo giornalista non dovrebbe mai farlo) a me piace ricordare Alanis Morissette. Sì lo so che per certi questa mia dichiarazione non fa figo, ma il suo disco Jagged Little Pill  resta ancora oggi uno straordinario affresco di un momento storico, quello di un’America giovane come non accadeva dagli anni 60, piena di sogni e anche incubi, ma con la capacità di portare se stessi davanti al mondo com non accadeva appunto da decenni.  Di esprimere una propria singolarità, inedita, di chi aveva visto sfumare malamente gli ideali dei suoi genitori (pace & amore? adesso siamo yuppie) ma non ne avevano trovato uno nuovo degno di essere vissuto. Smarrimento, rabbia, e anche qui ci furono film ottimi come Clerks-Commessi che fotografa tutto il disincanto di questi giovani che sapevano comunque sopravvivere a tutto. Quel film costò solo 53mila dollari, la metà dei quali spesi per i diritti musicali. Geniale. 

Quel disco di Alanis ha comunque una sequenza di ottimi brani e dei testi straordinariamente efficaci (Ironicpotrebbe essere il vero manifesto degli anni 90, insieme naturalmente a Smells like teen spirit: tutto quello che ti riserva la vita contro le tue aspettative, ecco di cosa canta Alanis in maniera straordinariamente convincente), così come i video tratti da quel cd. Poi anche lei è sparita nell’anonimato. 

E poi ci fu anche la riscoperta dell’impegno politico, una su tutte, Ani Di Franco, ma anche la straordinaria Michelle Shocked. Che fine hanno fatto? Qualcuno lo sa? E le ragazze molto arrabbiate, le “riot grrrls“, che riportarono in primo piano l’estetica del punk più verace. Indimenticabili le bravissime Sleater-Kinney.

E dall’altra parte dell’oceano? Be’, per un po’ Londra fu di nuovo “swinging” come lo era stata negli anni 60. La perfida Albione si risvegliò all’alba dei 90 con le intriganti sonorità del Madchester sound degli Stones Roses, che guardavano in egual misura ai Sxities più psichedelici e ai nuovi beat elettronici, mentre Blur e Oasis, ma anche i Pulp e i fantastici Verve di Richard “Madman” Ashcroft, guardando ai mai dimenticati Beatles, al glam rock e a David Bowie, ci regalarono uno sfracello di bellissime canzoni, oltre a una buona dose di atteggiamento “unpolitically correct” e cioè strafottente, maleducato ed esagerato come dovrebbe sempre essere nel rock’n’roll. Dopo anni di oblio l’Union Jack tornava a sventolare orgogliosa.

 

Ma insomma, in definitiva, quando penso agli anni 90 penso alle camicie di flanella a scacchi, ai berettoni di lana, ai jeans strappati, ai capelli lunghi finalmente dopo le allucinanti acconciature degli anni 80, a delle belle facce, a tante speranze e a tanta buona, ma buona musica. Cosa ci resta invece dei primi tredici anni del Duemila? Niente paura: ci salveranno gli hipster. L’apocalisse è ancora lontana. Chiudo  questa specie di articolo e faccio per mettere su un disco degli Oasis quando mi cade l’occhio su una pagina di gironale, ovviamente onlineo. Si parla di un nuovo cantautore. Guardo la foto e rabbrividisco: è un hipster perfetto accidenti. E la sua nuova canzone si chiama… Kurt Cobain. E’ un incubo. Prendetemi tutto, ma lasciatemi Kurt…

 

Nota bene: l’intento di questo articolo era meramente ironico. Non abbiano nulla contro gli hipster e i cantanti stonati. Anzi, ci aspettiamo molto da loro…