Gli Afterhours a Milano sono sempre stati un’istituzione, visto che in questa città sono nati e qui hanno mosso i primi passi, quando ancora erano considerati (a torto) una brutta copia dei Ritmo Tribale. Ma che riempissero l’Alcatraz per due sere consecutive, con la seconda data sold out già da una decina di giorni prima, era un qualcosa che francamente non ci saremmo aspettati.
Il gruppo di Manuel Agnelli è in giro ormai da vent’anni, ha contribuito a disegnare le coordinate stilistiche del rock italiano e anzi, se si può ancora oggi dire che esiste effettivamente un rock italiano, lo dobbiamo proprio a gente come loro.
Lo stesso Agnelli ha da anni una carriera parallela di produttore e discografico, ha ideato un festival itinerante (il Tora Tora, che all’epoca era visto come una risposta al ben più blasonate carrozzone dell’americano Lollapalooza) e ce l’ha pure fatta a passare indenne da Sanremo (cosa che non è riuscita altrettanto bene ad alcuni suoi illustri colleghi), dove ha utilizzato l’esposizione mediatica derivatagli dalla partecipazione, per realizzare una compilation con le più interessanti realtà della scena nostrana.
Poi, come è anche normale, abbandonata la furia sperimentale degli esordi, gli Afterhours hanno prodotto lavori meno coraggiosi ma non per questo privi di classe (“Quello che non c’è” ma soprattutto “Ballate per piccole iene”, che ha avuto un grande successo di pubblico) e altri decisamente meno buoni che però non sembrano aver decretato la fine del loro successo.
Non pareva ne avessero bisogno, ma oggi sono caduti anche loro nell’operazione nostalgia che ha contagiato la stragrande maggioranza dei loro colleghi, soprattutto all’estero.
Hanno infatti deciso di recuperare “Hai paura del buio?”, il loro secondo disco, uscito nel 1996 (strana ricorrenza, quella dei 18 anni) e considerato ancora oggi come il tassello migliore della loro discografia. Lo hanno registrato da capo, chiamando numerosi amici da altre band per dare nuova veste ad ogni singolo brano. Un’operazione deludente nei risultati: sentire Mark Lanegan cantare “Pelle” in italiano non è proprio un toccasana ma anche Piero Pelù in “Male di miele” risulta alquanto fuori posto. Ma deludente soprattutto perché quando raggiungi certi livelli con l’originale, tentare una copia è sempre un rischio, per quanto possa essere variegato il contorno.
Ma in questo tour gli ospiti sono stati lasciati a casa e l’esecuzione integrale dell’album può così avvenire senza molti fronzoli, nell’esatto spirito delle origini.
In effetti è proprio questo a colpire positivamente di questi “nuovi” Afterhours: paiono aver ritrovato quella potenza e quella furia iconoclasta che avevano perso per strada tanti, troppi anni fa. Che fossero diventati più riflessivi su disco, poteva anche starci: si cresce, si cambiano le prospettive e urlare con violenza le cose in faccia può anche non essere l’unico modo di comunicare. Chi scrive si ricorda bene lo sconcerto con cui fu accolto “Quello che non c’è” (che pure era un bel disco) all’indomani della sua uscita. Il problema era che sempre di più dal vivo apparivano scarichi, un divario incolmabile tra vecchi e nuovi pezzi dal punto di vista esecutivo, la voce di Manuel che quasi andava via già a metà concerto.
Oggi le cose non stanno così. Sarà che il singer si è fatto ricrescere i capelli come nei primi anni di vita della band, sarà l’inevitabile afflato sentimentale che operazioni di questo tipo portano con sè, fatto sta che gli Afterhours stasera sono tesi e carichi a mille e non hanno intenzione di concedere nulla a errori e sbavature. “Hai paura del buio?” scorre via che è una meraviglia dall’inizio alla fine, dall’irriverente “1996” alla conclusiva ballata pianistica “Sono come nuovo”. In mezzo c’è tutto quello che già sapevamo ma che in questa occasione ci viene ricordato più che bene e che non ci era mai sembrato così bello da ascoltare: le sfuriate punk di “Dea” e “Lasciami leccare l’adrenalina”, l’espressività lirica di “Pelle” o “Rapace”, le invettive sempre attuali di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”. Fino ad arrivare ad episodi che dal vivo si sentono ben poco come “Veleno” (qui una chitarra che va e viene provoca l’unico inconveniente della serata e la furia di un Manuel Agnelli che non è certo noto per essere un tipo tranquillo e paziente) o la delicata “Come vorrei”, che lo stesso Manuel esegue da solo alla tastiera.
Tutto perfetto, chirurgicamente perfetto. Forse anche troppo. Impossibile non godere di tutto questo ben di dio, soprattutto quando il ritorno di un certo Xabier Iriondo alla chitarra ha fatto fare al gruppo un bel salto nella scala della potenza.
Il primo bis, poi, ci riserva una bella sorpresa: la pausa dura più del necessario e ci stavamo chiedendo dove fossero finiti. Poi ecco che ricompaiono, travestiti da bambole esattamente come nel retro copertina di “Germi”, il loro esordio in italiano, il disco che li ha lanciati e ha cominciato a farli apprezzare. La title track, “Siete proprio dei pulcini” e “Plastilina” sono le tre canzoni di quest’altro capolavoro che vengono suonate in questa brevissima parentesi. Anche qui, perfezione e potenza si sprecano, con un Manuel Agnelli vocalmente ineccepibile.
A questo punto si sarebbe potuti anche andare a casa. Già, perché il bis successivo è interamente dedicato ai pezzi di “Padania” il quale, ahimè, non è proprio quel che si può dire un buon disco. La sensazione è però chiara: gli Afterhours oggi sono questo. Li guardo suonare “Spreca una vita”, “Costruire per distruggere” (forse l’unico brano che si stacca dalla media), “Io so chi sono” e “Padania” (anche questo bisogna ammettere che è un bel pezzo) e si capisce bene che questa è la dimensione più confacente a questo gruppo, il tentativo di operare una sintesi intelligente tra l’irriverenza degli esordi e le incursioni in stile cantautorale degli ultimi dischi.
Il risultato, purtroppo, parla di una band non molto ispirata e in cui le idee cominciano a latitare. Ma, sarebbe ingiusto non ammetterlo, stanno perseguendo un cammino coerente, nonostante tutte le critiche legittime che si potrebbe far loro. Perché “Padania” può non piacere ma non si può non definirlo un lavoro coraggioso, ambizioso e fortemente complesso. Di conseguenza, alla luce dell’ultimo scampolo di show, questa moderna incarnazione di “Hai paura del buio?” ha molto il sapore della retrospettiva, della rievocazione (pur impeccabile) di una realtà che questa band non vive più e che si è ormai definitivamente lasciata alle spalle. La decisione di proporre esclusivamente il materiale delle origini e quello più recente, tralasciando completamente tutto ciò che sta in mezzo, classici compresi, avrà probabilmente deluso molti ma ha costituito nello stesso tempo un messaggio molto chiaro. Come a dire: un tempo eravamo quello, adesso siamo questo, prendere o lasciare.
Hanno finito con “Televisione”, che era contenuta nell’ep “Male di miele” e che, quasi profeticamente, sembrava un’anticipazione dei territori che sarebbero stati esplorati in seguito. Un ultimo, gradito regalo ai vecchi fan, nulla da dire. “Prima o poi ci si abitua a tutto, anche a quel che sei”, dice a un certo punto il testo.
Non credo di essere riuscito ad abituarmi a questi Afterhours. È stata questa tournée un po’ nostalgica e un po’ commemorativa che mi ha riportato qui dopo alcuni anni che latitavo dai loro concerti. Operazioni come queste, in fondo, puzzano un po’ di stantio, hanno un sapore da ultima spiaggia, da colpo di coda di un gruppo che è stato affossato dal progressivo disinteresse del pubblico o magari dalla mediocrità degli ultimi dischi. E poi, quel senso di impossibilità nel riportare indietro il passato, che si declina in esecuzioni di vecchi brani che hanno quasi l’aspetto di un antico oggetto dentro la teca di vetro in un museo.
Potrebbe anche essere stato il caso di questi Afterhours e del loro “Hai paura del buio?” versione 2014. A tratti ho avuto questa sensazione, a tratti no. Alla fine, però, rimane una questione inutile. Quando un disco ha una tale bellezza, non si può non vederlo suonato dal vivo. E se il 1996 è passato da un pezzo, pazienza: abbiamo lo stesso tanta buona musica con cui consolarci.