Brother Jackson, come lo chiamano alcuni, è stata l’autentica voce dell’uomo comune, quello che John Lennon preferiva chiamare il “working class ero”, l’eroe della classe operaia. Jackson Browne nel suo straordinario catalogo di canzoni composte nell’arco di una carriera quarantennale, non ha mai però ceduto ad alcuna ideologia di sorta, tanto meno quella del cosiddetto “blue collar rock”, il rock – appunto – della classe operaia di cui sarebbero stati esponenti di spicco (ma lo erano davvero?) Bruce Springsteen e John Mellencamp.



Tutti loro, è vero, hanno cantato la quotidianità della vita reale, quella fatta di orari 9-5, di cartellini da timbrare, di autostrade da asfaltare, della fuga del sabato sera, i pannolini da cambiare, il lavoro da cercare, matrimoni che andavano a rotoli e allo stesso tempo domeniche pomeriggio passate al parco a giocare con i figli. Quelle persone che sono il sale della terra insomma, come dicevano i Rolling Stones nella più bella canzone dedicata appunto agli eroi della vita quotidiana, Salt of the Earth.



Jackson Browne ci ha messo però una particolare capacità di compassione, uno sguardo caritatevole e pieno di amore per quest’uomo che fatica e sputa sang per mettere insieme, come si diceva una volta, il pane con il companatico. Una canzone come For Everyman, per dirne una, ne è il manifesto più affascinante e commovente, un abbraccio al cuore dell’uomo che desidera e combatte per una vita dignitosa, condizione comune a tutti anche se molti tendono a dimenticarlo nella banalità e nella distrazione delle promesse vacue del mondo: appunto, “per ogni uomo”. In un’altra canzone, The Pretender, Browne sottolinea in modo magnifico questo dualismo, questa lotta nella natura dell’uomo tra il bisogno di avere di più, il non accontentarsi e l’esigenza di normalità che ci spacca, spesso e volentieri, in due senza darci tregua: “Prenderò una casa in affitto, al mattino mi preparerò il pranzo e andrò a lavorare tutti i giorni e quando scenderà la sera sarò a casa, e quando la luce del mattino irromperà, mi alzerò e lo farò di nuovo: amen”. Anche se alla fine è di una sconfitta che si parla: “Dì una preghiera per il pretendente, che ha iniziato così giovane e forte solo per arrendersi”. Ma la preghiera c’è lo stesso, nonostante tutto. Un uomo che la vita l’ha vissuta appieno, conoscendone il dolore più profondo (la prima moglie morta suicida) e che ci ha lasciato una testimonianza coraggiosa di realismo.



Jackson Browne musicalmente è anche stato il cantore più limpido e puro del sogno californiano, e della bellezza di quei cieli infiniti; della promessa di quella terra che è sempre stata “the promise land” per eccellenza del sogno americano, ha fatto la trasposizione sonica: la perfezione del bel canto, le melodie memorabili, la purezza di cori angelici. Un repertorio, il suo, da spezzare le ossa a tanti colleghi e concorrenti, giustamente adesso tributato in un doppio cd che però in gran parte delude le aspettative.

“Looking Into You: A Tribute to Jackson Browne” innanzitutto per motivi misteriosi vede l’assenza dei suoi migliori amici, coloro che hanno fatto della purezza del bel canto uguale bandiera e che con lui hanno condiviso dischi, palcoscenici, impegno civile, e cioè David Crosby e Graham Nash, così come manca un altro grande amico, Glenn Frey degli Eagles che con Jackson Browne scrisse a quattro mani il manifesto della California post Beach Boys, quella della vita facile e piena di occasioni, la memorabileTake It Easy. C’è però un altro grande amico, Bruce Springsteen, anche se la sua interpretazione diLinda Paloma è forse il brano peggiore della raccolta. Canzone dal sentimento messicano, sognante e crepuscolare, il Boss proprio non ce la fa a calarsi in atmosfere che evidentemente non gli appartengono.

Ci sono altri eroi del canto californiano, come la dimenticata Karla Bonoff, stella negli anni 70, oggi desaparecida, con una discreta Something Fine, o anche la cara amica Bonnie Raitt insieme al compagno nei dischi migliori di Browne, il polistrumentista David Lindley. Everywhere I Go perde però gran parte del suo fascino originale, quello di un ragamuffin spiritoso e accattivante, diventandone copia annoiata e sbiadita, esercizio di stile anche un po’ presuntuoso. E’ il limite di parte del disco, brani che perdono la forza e l’epicità dell’autore e che sembrano registrati appunto come una lezioen di stile, sprofondando in boriosità fine a se stessa dimostrando in qualche modo i limiti di quel rock californiano, non a caso ai tempi da qualcuno definito “soft rock”, il rock soffice ed etereo. In questo senso un’altra grande voce di quegli anni, J.D. Souther, porta alle estreme – negative – conseguenze quell’immaginario sonico, la purezza e la limpidezza delle voci e degli strumenti. Troppa perfeziona stona, è risaputo. Così cade nella noia anche uno dei massimi esponenti di quel mondo antico, Don Henley, la voce di Hotel California e tanti altri brani memorabili. La sua versione di These Days non regala alcuna emozione.

Quando non si arriva all’omicidio vero e proprio, trasformare l’impetuoso rock’n’roll di Running on Emptyin una melensa ballata soporifera (autore ne è Bob Schneider).

Ci sono momenti egregi e molto anche, però, ad esempio un insospettabile Jimmy La Fave che alza il tiro dell’epicità maestosa di For Everyman con una ricchezza strumentale e vocale di stupefacente potenza evocativa. Bravo è anche Lyle Lovett, presente con due brani: Rosie e Our Lady of the Well.

 

 

 

Brave sono poi le redivive Indigo Girls in una intensa e briosa Fountain of Sorrow. Il brano migliore però potrebbe essere proprio quello che fa a cazzotti con l’estetica californiana di cui prima. La canzone intanto è la più bella mai composta da Jackson Browne, The Pretender. L’interprete, che si pensava a mille miglia di distanza dal suo mondo, è Lucinda Williams. Ecco che la sua voce roca, sporcata da dozzine di pacchetti di sigarette e bottiglie di Bourbon, da cuori infranti e delusioni insistenti, diventa una straordinaria rilettura piena di inquietudine, malinconia cosmica, ma anche di desiderio che la felicità invocata nel brano si realizzi. Sembra di rivedere lo straordinario carattere di un film come Alice non abita più qui, una donna sola contro il mondo a difendere ciò che le resta nella vita. La Williams non fa sconti a ricerche perfezionistiche, anzi, diventa il protagonista del brano e così facendo ne esalta la domanda e la restituisce a tutti coloro che nella vita l’hanno perduta da qualche parte. “Looking Into You” alla fine sarebbe stato perfetto o quasi su un solo cd, ma va bene anche così. Vale la pena ancora soffermarsi su una bella ripresa di un altro classico di Jackson Browne, Late for the Sky, per la sola voce splendida accompagnata dal pianoforte di Joan Osborne o sulla commovente rilettura di For a Dreamer dei Venice in cui la potenza corale toglie quell’oscura maledizione che accompagnava il brano originale (la morte di un amico o più realisticamente il suicidio della moglie) per spalancare i cancelli dell’infinito e dell’altrove. Rimangono alla fine le canzoni di un artista straordinario, magari da andare a recuperare tirandole fuori dal baule polveroso del tempo e da riascoltare con un bicchiere di vino rosso, caldo come il cuore pulsante di Brother Jackson, il fratello che ci ha tenuto compagnia nei “migliori anni” della nostra vita. E ancora lo fa, per il tempo che può durare una canzone, “through the whispered promises and the changing light of the bed where we both lie late for the sky”.