Giuliano Dottori è forse più noto per essere il chitarrista degli Amor Fou ma se con questa band ha ottenuto un maggiore successo commerciale, non bisogna dimenticarsi della sua carriera solista, iniziata prima dell’avventura dei Fou e assestatasi sempre su un ottimo livello qualitativo. “L’arte della guerra, vol.1” è da poco uscito e si tratta di un disco in cui Giuliano ha messo un gran bel pezzo della sua vita. E in effetti, ad ascoltarlo, suona fresco è ispirato come non mai, nonostante duri poco più di mezz’ora (ma c’è una seconda parte in arrivo a breve). Gli abbiamo telefonato nella giornata di un suo concerto romano, per quello che è uno dei primissimo show a supporto del disco. Appena arrivato nella capitale, poco prima di effettuare il soundcheck di rito, il chitarrista si è sottoposto volentieri alle nostre domande. Ne è venuta fuori una chiacchierata molto interessante in cui si è parlato del disco, della situazione del rock italiano, dell’annosa dialettica indie/mainstream, senza dimenticare un interessante accenno all’orario di inizio dei concerti nel nostro paese…
Ti chiederei per prima cosa di introdurre un po’ questo disco (che mi è piaciuto molto, te lo dico subito) a partire da quelli che secondo te sono le principali differenze coi due lavori precedenti.
Rispetto agli altri due dischi, mi è piaciuto l’approccio che abbiamo avuto in studio con i musicisti e il fonico. Abbiamo voluto spingere molto la componente pop laddove essa meritava di uscire, cercando di farci meno seghe mentali, se mi passi il termine, sulla resa radiofonica che avrebbe potuto avere una determinata canzone. Per questo disco sono venute fuori canzoni più pop e abbiamo seguito questa direzione, senza tuttavia dimenticarci da dove veniamo. Infatti, dall’altro lato, ci sono dei brani, come “Quando tornerai a casa” o “Occhi dentro agli occhi”, in cui abbiamo spinto ancora più oltre nella direzione della ricerca e della sperimentazione. Ne è quindi venuto fuori un disco che è come compreso tra due poli opposti: la semplicità e l’immediatezza della melodia da una parte, le soluzioni sperimentali dall’altra. Nei primi due lavori era come se non avessimo mai avuto il coraggio di andare fino in fondo: se la canzone era troppo “commerciale” cercavamo di fare in modo che non si vedesse troppo. Ugualmente, avevamo la tendenza ad ammorbidire i passaggi più ostici. Di conseguenza abbiamo fatto due dischi più uniformi ma meno interessanti di quest’ultimo.
Trovo che la bellezza di questo disco risieda principalmente nel fatto che contiene delle belle canzoni. I pezzi sono tutti molto belli, e tutti migliori di quelli contenuti nei due dischi precedenti. Significa che sei maturato come songwriter? Oppure sei in un periodo particolarmente ispirato?
Mi sento sicuramente migliorato come autore. D’altra parte, se non fosse così, non avrebbe senso andare avanti! Col tempo si acquisisce una componente di mestiere per cui impari a scrivere, a limare molto, soprattutto nei testi. Se desideri allargare il tuo pubblico, è necessario, secondo me, lavorare molto sui testi. Nel senso che bisogna avere il coraggio di scrivere cose magari meno sofisticate, magari addirittura banali, ma che tutti riescano a capire e nelle quali tutti si possano identificare. Quindi, un verso come “Aspetteremo ancora un’altra estate” in quest’ottica può essere significativo. C’è poi senza dubbio un’urgenza di scrittura che mi ha aiutato: questo è un disco che ho scritto in un periodo molto particolare della mia vita, ho trovato una spinta, degli stimoli che prima non c’erano.
Questa cosa del non avere il coraggio di essere semplici, ha per caso a che vedere con una certa naturale spocchiosità del mondo indie rock da cui provieni?
Sì, assolutamente. Condivido con te la polemica e mi ci metto pure in mezzo. Sono sempre stato un po’ snob riguardo a certe dinamiche ma poi, grazie anche al fatto che negli ultimi anni c’è stato uno scambio frequente tra il mondo indie e quello cosiddetto mainstream, le carte si sono mescolate e non c’è più quella contrapposizione buoni/cattivi che poteva esserci prima. Adesso ci sono artisti mainstream che si fanno scrivere le canzoni da DiMartino, oppure artisti di nicchia che vanno a suonare assieme a gente di X Factor… Insomma, è molto più variegato.
Anche Sanremo in questo ha aiutato: negli anni vi hanno partecipato Marlene Kuntz, Afterhours, Marta sui Tubi, quest’anno Riccardo Sinigallia e i Perturbazione…
La cosa incredibile dei Marlene Kuntz è stata che, prima ancora di esserci andati, dunque prima ancora che la canzone venisse ascoltata, hanno dovuto scrivere un comunicato stampa per giustificarsi! E in questo modo hanno peggiorato la situazione perché hanno avvalorato loro stessi l’idea che andare a Sanremo sia una cosa per forza negativa! Tuttora c’è un po’ di snobismo nel nostro ambiente ma mi sembra che ormai sia più facile riuscire ad interagire tra i due mondi. Spesso uno pensa che gli artisti mainstream facciano schifo in blocco ma comunque c’è sempre da imparare dalla loro professionalità, da un modo di approcciarsi al lavoro che noi non abbiamo. Uno come Tiziano Ferro, per farti un nome che apprezzo ma non ascolto, è stato tra i primi ad essere riconosciuto da parte della nostra scena e questo proprio perché non ne è stata mai messa in dubbio la qualità. Il triste semmai è quando, da entrambe le parti, c’è un appiattimento: quando vedi che nel mondo mainstream suonano tutti uguali e cambia solo la voce. Oppure, per quanto riguarda noi, c’è stato un periodo in cui tutti scimmiottavano i Radiohead. In generale, si tratta di un’omologazione che alla lunga ci ammazza.
Torniamo al disco: mi ha molto colpito il fatto che tu l’abbia organizzato in maniera logica, con un filo conduttore che si dipana dall’inizio alla fine. In particolare, mi piacerebbe che tu approfondissi quelli che secondo me sono i punti più importanti per capire questo lavoro: da una parte c’è l’attesa di un qualcosa di positivo, come tu stesso scrivevi, l’idea dell’aspettare l’estate oppure quell’immagine del mondo che, finalmente, sarà dalla nostra parte. Però, dall’altro lato, alla fine della title track canti che “la felicità è un trucco in cui non credo più”…
Avendo passato i 35, appartengo a una cultura di ascolto dei dischi che oggi i giovani non hanno più. Il disco è sempre un racconto, ha un inizio e una fine. Poi puoi anche saltare una canzone, se non ti piace, ma in genere con quell’approccio lo ascolti tutto. Per quanto riguarda questo, si parte mettendo in discussione alcune cose, c’è un senso di smarrimento che poi è anche un po’ generazionale: quando parlo di attesa mi riferisco alla mia generazione. Oggi si sentono tanto slogan come “ci avete rubato il futuro”, riferito alle generazioni più giovani ma si dimentica di dire che la nostra è stata la prima generazione che si è sentita realmente impreparata al futuro, per varie ragioni.
Io poi però ho vissuto esperienze particolari, da cui sono nate le canzoni del disco. Mi piaceva quindi anche poter dire: “Ecco, in quel determinato periodo è successo questo. Adesso invece che cosa succederà?” Perché io ho sempre vissuto all’interno di un presente invece, con l’avanzare dell’età, si iniziano a fare bilanci, a proiettarsi in avanti. Questa per me è l’attesa: è il rimettersi in discussione, avere una spinta in avanti verso il futuro. Per quanto riguarda invece l’estate, ti dico una cosa che non ho ancora detto a nessuno: è certamente una canzone che comunica l’attesa di qualcosa di positivo, c’è tutto un gioco tra le strofe e il ritornello per cui nelle strofe si esprime una difficoltà mentre il ritornello è più arioso, c’è un’atmosfera positiva data anche dall’incontro con questa ragazza anche se poi non si sa che cosa succederà. L’occasione specifica nasce però da un mio viaggio a Sarajevo: ci sono stato in vacanza qualche anno fa, è una città meravigliosa, che ti toglie il fiato da tanto è bella. Mi piaceva molto il contrasto tra una città sotto assedio, l’inverno molto difficile con la guerra, le bombe che cadono dal cielo ma nello stesso tempo la speranza dell’estate che, arrivando, porterà la fine della guerra. È chiaro che poi questa esperienza non traspare dalla canzone ma è comunque un qualcosa che mi è rimasto nel cuore. L’anno scorso poi c’è stata una mostra fotografica sull’assedio di Sarajevo e visitandola molti di questi ricordi mi sono stati risvegliati, anche perché poi quello era proprio il momento in cui stavo scrivendo le nuove canzoni. Non ho voluto raccontarlo troppo perché per me era molto più forte il tema universale sotteso al pezzo e quello della guerra in Jugoslavia non è più un tema attuale come poteva esserlo anni fa, quando i CSI hanno pubblicato “Linea Gotica”, ad esempio.
In generale comunque, questo è un disco che procede a scatti, a fermate improvvise, ma penso che abbia un senso, se ascoltato tutto di fila. È un fluire continuo, è come un racconto unico che cresce insieme a me e questo mi piace molto.
Invece “Il mondo dalla nostra parte”?
Parla di una persona smarrita che ha perso il contatto con le cose che potevano farla stare bene ma poi questo conflitto è in qualche modo risolto e quindi il mondo riprende ad essere dalla sua parte, anche la gente intorno avrà un ruolo positivo, aiuterà a spingersi di nuovo verso il futuro.
Un altro episodio che mi ha molto colpito è “Le vite degli altri”, che dici essere stato ispirato dall’omonimo film. Ascoltando il pezzo però, non si direbbe…
Il film in realtà ha dato solo una piccola suggestione, il testo poi è molto ambiguo e sfumato. Mi piace tantissimo andare in giro per Milano, a piedi oppure in bicicletta. È una città molto nascosta, trovo affascinante il gioco di guardare in alto, nelle finestre dei palazzi, i terrazzi e immaginare quali viste possano nascondere, quali vite sono vissute dalle persone che ci abitano. Da qui mi è venuta l’associazione col film, lo spiare le vite degli altri, anche se lì era fatto per fini politici e non era certo una cosa positiva. C’è tutto un tema ricorrente nell’immaginare le vite degli altri, immaginarsi feste meravigliose, in mezzo a piante esotiche… è una cosa che sento molto mia, che fa parte del mio naturale fantasticare.
Non voglio chiederti degli Amor Fou perché immagino lo facciano già in tanti. Mi piacerebbe solo sapere se, quando scrivi per loro, utilizzi un approccio differente rispetto ai tuoi dischi solisti…
Sì, sono due approcci completamente diversi. Il mio è un progetto più da cantautore, poi in questo ultimo disco sono stato anche produttore e fonico, ne ho curato ogni dettaglio. Negli Amor Fou invece ho un ruolo di comprimario, ho cofirmato alcuni brani ma in genere mi è capitato di lavorare su materiale già composto da Alessandro (Raina, il cantante NDA). L’unico caso in cui ho scritto un brano interamente è stato “a.t.t.e.n.u.r.B” sul secondo disco “I moralisti”. Era il periodo in cui Brunetta era ministro e aveva fatto quella tirata assurda contro i musicisti che dovrebbero andare tutti a lavorare. Mi era venuta l’idea di campionare sopra alla base strumentale un pezzo di quel discorso ma poi la casa discografica ci ha consigliato che forse non sarebbe stato il caso e così abbiamo messo la sua voce ma al contrario (ride, NDA)!
Un po’ hai già risposto all’inizio ma mi viene da chiedertelo lo stesso: com’è la situazione del rock in Italia? Siamo poi messi così male o intravedi degli spazi di ripresa?
Siamo messi così così, secondo me. Tra la gente c’è sempre molta esterofilia e a livello di pubblico mainstream la situazione è addirittura drammatica: siamo fermi agli anni ottanta, l’immaginario comune del rock è ancora il chitarrone, la batteria potente e il cantato alla Kiss. Non so dire se sia solo un problema di media ma sicuramente sul rock, che è un genere forse un po’ meno nostro rispetto agli altri, giornali e televisioni tendono a spingere sempre sui progetti esteri. Penso poi a certi festival, con spazi enormi dati a famose band straniere, quando magari poi ci sono realtà locali che andrebbero valorizzate di più. Che poi questa cosa dei festival è assurda: l’Heineken Jammin’ Festival, per dirne uno, ha sempre fatto grossi buchi tranne quando c’era Vasco. Poi però, se vai in Spagna al Primavera o a Glastonbury in Inghilterra, trovi sempre un sacco di italiani! Allora vuol dire che da noi manca proprio la cultura… Poi è anche vero che spesso tra i nostri artisti e quegli stranieri c’è una distanza qualitativa notevole ma questo accade soprattutto perché là hanno più possibilità di venir fuori. In generale quindi, siamo rimasti un po’ fermi. C’è stata una certa accelerazione sulla scena cantautorale ma per quanto riguarda le band, eccezion fatta forse per i Ministri, sono tutte realtà ancorate agli anni novanta.
Visto che tra poche ore salirai sul palco, vuoi darci qualche anticipazione? Che tipo di spettacolo stai portando in giro in questi giorni?
Facciamo tutto il disco nuovo, dall’inizio alla fine, poi ci attacchiamo un po’ di pezzi vecchi, tratti dai primi due dischi e infine diamo qualche anticipazione del vol.2, che dovrebbe uscire il prossimo anno, se tutto andrà bene. Sarà uno spettacolo breve, non più di settanta minuti, l’ideale per scaldarci, visto che sono le prime date. Ci piaceva poi l’idea di suonare tutto il disco, proprio per portare anche dal vivo quel senso di percorso unitario di cui ti dicevo prima.
Spero proprio non salirete sul palco a mezzanotte, come ormai qui succede fin troppo spesso. A proposito, come la vedi questa cattiva abitudine tutta italiana?
È assurdo, penso che gli orari di inizio siano ormai proibitivi, anticipare sarebbe una necessità! Sto iniziando a fare dei sondaggi, mi piacerebbe fare una lettera aperta assieme ad altri artisti, da mandare ai locali o ad altre realtà, perché si prenda consapevolezza del problema. E questo non solo perché in Europa dovunque si inizia presto ma anche perché, facendo così, si riuscirebbero a coinvolgere molte più persone. Chi ha figli, chi lavora, chi non ha più l’età per fare le ore piccole… tutta gente che se si anticipasse verrebbe più che volentieri!
Ma da cosa dipende questo andazzo, secondo te?
Mah, è un malcostume tutto italiano. Se annunci gli orari d’inizio e poi, puntualmente, ritardi di un’ora o anche più, la gente alla lunga non ti crede e arriva tutta dopo. È interessante quello che ha iniziato a fare il Circolo Degli Artisti a Roma, che è uno dei locali più importanti d’Italia. Da qualche mese tutti i concerti iniziano alle 21.30. Le prime volte la gente arrivava tardi poi, pian piano, hanno capito e adesso le cose funzionano.
Bene, ti faccio un grosso in bocca al lupo per il concerto di questa sera e per quelli futuri. Ci risentiamo quando esce la seconda parte!
Senz’altro. Grazie a te, a presto!
Comprare “L’arte della guerra” sarebbe un bel modo per dare un segnale forte: in Italia il rock è soprattutto questa cosa qui…