Dicono che Robert Johnson, uno dei bluesman più importanti e significativi della storia, all’inizio fosse un pessimo chitarrista e un mediocre cantante. Niente di che, solo un nero dalle movenze quasi femminine che si aggirava da una bettola all’altra del Mississippi. Poi, il colpo di scena. Robert Johnson sparisce dalla circolazione per un anno e quando ricompare è diventato il più grande chitarrista blues del Delta, capace di cose impossibili per chiunque altro. Come abbia fatto a trasformarsi in questo modo nessuno lo ha mai saputo. Anzi, qualcuno forse lo sapeva: Bob Johnson aveva fatto un patto col diavolo in persona. La leggenda narra che lo avesse incontrato ad un crocevia e gli avesse venduto l’anima in cambio della rivelazione di tutti i segreti del blues. Il diavolo sarebbe poi andato ad incassare il suo compenso in una taverna, prendendo le sembianze di un marito geloso e versando del veleno nella bottiglia di whisky di Johnson. Resta il fatto che la sua trasformazione dal nulla alla perfezione musicale ha del misterioso.
In quest’anno di grazia musicale – vista la quantità di bei dischi già usciti in questi primi mesi del 2014 – viene da chiedersi se Paolo Nutini non abbia seguito le orme di Robert Johnson.
Ok, il vostro recensore è ben consapevole del peso delle proprie parole e “i nostri venticinque lettori” a fronte di una sparata di tal foggia potrebbero essere ben legittimati a spernacchiarci per la magniloquenza della similitudine. Resta però il fatto che la parabola della carriera di Nutini, scozzese di evidenti origini italiane, è un bel mistero. Bello, soprattutto.
I suoi esordi risalgono al 2006 e, sinceramente, il suo primo album non era propriamente quello che si può definire un disco “eccezionale”. “These streets” era un pastone radiofonico che distillava poppettino con una vena malinconico/esistenziale, buono per le tredicenni ma privo di sostanza. Eppure, come spesso capita per album piuttosto mediocri, le vendite furono eccezionali: due milioni di copie in Europa in un periodo di vacche non magre ma magrissime per il mercato musicale.
Sarebbe stato fin troppo facile adagiarsi sugli allori e proseguire una carriera definibile con un po’ di buon vecchio latinorum come all’insegna di una aurea (etsi danarosa) mediocritas. E, diciamo la verità, tutti coloro che avevano ascoltato quell’album difficilmente si sarebbero aspettati chissà quale deviazione da una linea artistica che sembrava ormai definitivamente segnata. Ci eravamo evidentemente sbagliati tutti quanti.
Già, perché con il suo album del 2009 “Sunny side up” Nutini invertiva nettamente la rotta, affidandosi ad un produttore eccellente come Ethan Johns (nel suo background ci sono i lavori in cabina di regia per Ryan Adams, Laura Marling, Ray La Montagne, Jayhawks e molti altri, in sostanza la crema della musica d’autore americana dell’ultimo decennio) e sfoderando doti vocali inaspettate ed insospettabili nonché una scrittura di classe improntata su atmosfere soul, folk e talora con un occhio strizzato al ragtime. Difficile affermare che l’interprete senza grande nerbo del primo singolo tratto dal primo album, These street, fosse lo stesso che furoreggiava nel pezzo di bravura in stile Harry Belafonte di Pencil full of lead. “Sunny side up” era in definitiva un ottimo disco, seppure improntato ad una certa leggerezza, le cui ottime vendite (ancora una volta sopra i due milioni) hanno forse indotto la critica più snob a sottovalutarlo eccessivamente.
Cinque anni di silenzio dopo un disco dalle vendite plurimilionarie nonché pieno di spunti musicali variegati – forse fin troppi – sono un periodo decisamente lungo, soprattutto per i tempi del mercato di oggi. Perciò viene quasi da chiedersi se in questa lunga pausa Paolo Nutini si sia veramente ritirato in compagnia del diavolo per carpirgli qualche segreto musicale.
Certamente si è dato da fare, al punto che stavolta è lui stesso ad essersi seduto al banco del mixer per produrre il nuovo album, chiamando ad aiutarlo Dani Castelar (che aveva già prodotto il suo esordio ma il cui contributo, dicono i bene informati, si è limitato a conferire a Nutini le necessarie direttive tecniche per il lavoro di produzione). Allo stesso tempo, osiamo immaginare che il Nostro si sia particolarmente concentrato sul lavoro di scrittura. Difficilmente si spiegherebbe altrimenti l’incredibile balzo in avanti dal punto di vista compositivo, la cui evoluzione dalle scialbe atmosfere pop di “These streets” alle coloriture negroidi, ricche di soul e funk di questo nuovo lavoro lascia quantomeno stupiti.
Che sia il nero il colore che contraddistingue questo nuovo album, il cui titolo “Caustic love” è decisamente indicativo della natura urticante della musica che vi è contenuta, è manifesto sin dalla copertina, nera appunto, sulla quale campeggia un Nutini urlante. Così come nerissime sono le note iniziali del disco, affidate al singolo Scream (Funk my life up), il cui tiro incisivo e ficcante sembra uscito da un disco di Prince.
L’attitudine che emerge sin dalle prime note del disco e che pervade tutti i solchi delle undici canzoni (cui si aggiungono due brevi intermezzi) contenute nell’album è quella di una rivisitazione della musica nera nel suo complesso, con un animo decisamente revivalistico e un’attenzione particolare alla ricerca di sonorità vintage. Fanno capolino quindi in tutte le canzoni dell’album organi Farfisa, chitarre che spesso ricalcano lo stile inconfondibile di strumentisti come Steve Cropper e Eddie Hinton, orchestrazioni dal tono molto passatista che a tratti ricordano lo stile psychedelic soul di un genio assoluto come Charles Stepney (se il nome non vi dice niente, andate ad ascoltare i lavori di quest’ultimo per Minnie Ripperton, Terry Callier e gli Earth, Wind & Fire). Un suono molto pastoso e a tratti forse magniloquente, che ha qualche punto di contatto con le sonorità passatiste dell’album di esordio di Amy Winehouse, i cui terreni esplorati sono più o meno gli stessi, con – a parere di chi scrive – la differenza di una scrittura, quella di Nutini, decisamente più incisiva ed a fuoco.
Proprio la capacità di scrittura è il punto forte di “Caustic love”: Nutini mostra una maturità da veterano e una profondità tale che a stento si crede che l’autore abbia soltanto ventisette anni (e qui, se permettete, lo scongiuro è d’obbligo. Ogni buon music lover sa il perché).
Si passa dal rilassato rhythm’n’blues di One day, con tanto di fiati a punteggiare la parte ritmica, ai battiti di Diana, la cui strofa sospesa fra note di chitarra riverberata e wurtlizer piano si apre poi nel falsetto “Princesco” del ritornello. E ancora, dal groove danzereccio di Fashion (scommettiamo che sarà questo il secondo singolo?) alla complessità anche piuttosto scura di Looking for something e di Cherry blossom.
La parte del disco che segna però il passaggio definitivo alla maturità è senza dubbio quella centrale, con la sequenza Better man/Iron sky, ballata soul magistrale la prima, dal crescendo emotivamente vertiginoso, claustrofobica, psichedelica e sofferta cavalcata la seconda, nel quale Nutini grida tutte le proprie domande esistenziali, arrivando ad inserire anche una parte del monologo centrale di Charlie Chaplin ne Il grande dittatore.
Non è un disco semplice, questo Caustic love. Non ci sono singoli dall’immediata presa. A volte è anche fin troppo accartocciato su se stesso – ben quattro brani su dodici superano i sei minuti di lunghezza – e che non può certamente essere utilizzato come musica sottofondo, necessitando grande attenzione ai particolari. Eppure è un disco pieno di spunti e di contenuti e, se l’ascoltatore avrà la giusta pazienza, soffermandosi più e più volte sulle varie tracce, potrà coglierne le mille sfumature ed una profondità rara nei dischi che escono oggi (e, a maggior ragione, in quelli che riempiono le classifiche, visto il numero uno già raggiunto in Inghilterra).
Nutini non avrà venduto l’anima al diavolo ma è cresciuto ed è maturato. Questo ci basta e ci avanza, con buona pace di Robert Johnson.