In occasione della Festa della Liberazione e della doppia canonizzazione, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha organizzato un concetto ‘straordinario’ (replicato sino al 29 aprile) nel senso etimologico della parola di ‘fuori dall’ordinario’. Da un lato, è stato ‘fuori dall’ordinario’ sotto il profilo politico a ragione della presenza a Roma di tanti ‘grandi della terra’ (per la doppia canonizzazione); il Capo di Stato Napolitano con la Signora Clio e il Presidente della Commissione Barroso erano nella fila centrale dell’auditorium e si sono intrattenuti con il Sovrintendente e Direttore Artistico Cagli e con il Maestro Pappano sul significato dell’evento. Da un altro, il concerto prevedeva, senza interruzione, l’’aria della prigione’ da Fidelio di Beethoven, l’opera Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola, e gli ultimi due movimenti della nona sinfonia di Beethoven. Ossia il primo romanticismo tedesco fuso con la dodecafonia del 1947 italiana. La fusione è facilitata dal fatto che l’ultima tonalità dell’aria da Fidelio è identica alla prima de Il Prigioniero; inoltre il finale drammaticissimo de Il Prigioniero scivola facilmente nel terzo movimento (riflessivo) della nona di Beethoven prima dell’esplodere dell’Inno alla Gioia nel quarto movimento.



Questa ‘contaminatio’ che ha esaltato il pubblico dei concerti dell’Accademia – un pubblico notoriamente tradizionalista e tendenzialmente conservatore – deve essere letta sotto due punti di vista, uno politico e uno musicale. Sotto il profilo politico, si è trattato senza dubbio di un’operazione azzeccata: l’’aria’ da Fidelio e Il Prigioniero mostrano indubbiamente i lati più repellenti della tirannia, mentre l’Inno alla Gioia (cantato anche mentre veniva abbattuto il muro di Berlino) è l’esaltazione della libertà. 



Sotto il profilo più strettamente musicale sono rimasto perplesso; dopo l’enorme tensione de Il Prigioniero la seconda parte della nona di Beethoven mi è parsa un po’ appannata. Probabilmente è l’effetto di un primo ascolto da parte di un ascoltatore che è un grande estimatore di Dallapiccola. Se mai verrà prodotta una registrazione ad alta fedeltà del concerto si potrà formulare un giudizio più meditato.

Alcune notazioni sugli interpreti. In primo luogo, il coro e l’orchestra di Santa Cecila hanno fatto davvero miracoli nella lettura della ‘contaminatio’, principalmente dei cinquanta minuti de Il Prigioniero. Non esiste nessuna buona registrazione in commercio con cui fare raffronti e da cui apprendere poiché non considero tale l’unica trovabile in Italia quella realizzata venti anni fa dall’allora giovane Esa-Pekka Salonen con la radio svedese. Ho la fortuna di possedere il disco, in vinile, prodotto dalla National Symphony americana diretta da Antal Dorati. 



Negli Stati Uniti e negli Anni Ottanta nell’Europa dell’Est, specialmente a Budapest, Il Prigioniero era di repertorio  mentre in Italia Dallapiccola, che pur aveva dato le dimissioni dalla cattedra universitaria alla proclamazione delle leggi razziali, era stato messo al bando da una certa intellighentsia.  Nel 1950, alla prima esecuzione scenica Il Prigioniero venne accusato di anticomunismo viscerale (sono evidenti i nessi con Koestler, Sirone e i lavori “dissidenti” di Sartre), nonché di essere “un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio più educato e più svelto riuscirebbe a districare” (così scrisse “L’Unità”). Da allora, una ottantina  di produzioni de  Il Prigioniero nel mondo di cui solo una mezza dozzina in Italia. 

Ho avuto la fortuna di vederne tre (a Catania, a Firenze e a Modena) dal vivo. Bravissimi i tre protagonisti (due dei quali anche nella nona di Beethoven): Angeles Blanca Gulin è un soprano ‘assoluto’ che può affrontare qualsiasi ruolo, Louis Otey un baritono in grado di scendere a registro da basso anche profondo, Stuart Skelton un tenore lirico spinto (ottimo per il ruolo del torturatore mellifluo de Il Prigioniero e per la nona ma avrei preferito un timbro più brunito per l’aria da Fidelio con cui si è aperto il concerto..