Agnes Obel è danese ma vive da anni a Berlino. “Aventine”, il suo secondo disco, è uscito lo scorso anno, tre anni dopo l’esordio “Philarmonics”. Un esordio folgorante, che le ha fruttato recensioni positive in tutto il mondo e ha addirittura permesso ad un brano, “Just So”, di divenire la colonna sonora dello spot di una nota azienda tedesca di telecomunicazioni.
Questo secondo lavoro ha confermato quanto di buono si era già visto: una voce cristallina ed espressiva, un songwriting di primissimo livello, una cura degli arrangiamenti decisamente fuori dal comune. Definirlo come una delle migliori uscite del 2013, non sarebbe poi una dichiarazione così azzardata.
Agnes ha un buon rapporto col nostro paese: ci viene dal 2010 e questa dovrebbe essere già la sua terza o quarta volta. Secondo passaggio di supporto a questo disco, dopo la toccata e fuga milanese alla fine dello scorso anno, che aveva fatto registrare un rapido quanto sorprendente sold out.
Questa volta c’erano più possibilità di vederla in azione: sono infatti state organizzate tre date (Milano, Roma, Torino) in venue decisamente più capienti.
Noi ci siamo recati alla data milanese e ci ha sorpreso, non appena entrati all’Alcatraz, notare che nel locale erano state sistemate delle sedie e sul palco era stato collocato un pianoforte a coda, in modo da evocare un’atmosfera quanto più possibile teatrale. Nonostante si sia utilizzato lo stage più piccolo, andando ad occupare solamente la metà dello spazio disponibile, l’affluenza risulterà ottima, con le sedie completamente riempite e diverse file di persone in piedi nelle retrovie: a occhio e croce, circa trecento persone, numero che per un’artista di questo stampo, nel nostro paese non sono poche.
In apertura, Melanie De Biasio, cantautrice e flautista belga il cui secondo disco, “No Deal”, è uscito da poco. Si presenta sul palco da sola, accompagnata dalla sua chitarrista e intrattiene il pubblico per una mezz’ora scarsa, presentando i brani del proprio repertorio. Atmosfere lentissime e malinconiche, un pop a tratti ambient, a tratti quasi jazz, con frequenti interventi del flauto ad impreziosire il tessuto armonico. Una proposta interessante ma senza dubbio non facile, per uno show molto intimo, che le luci bassissime e l’atmosfera da night club, hanno sottolineato a dovere.
L’ingresso di Agnes Obel è salutato da un lungo applauso da parte di un pubblico attento e compostissimo, che seguirà tutti i brani in religioso silenzio, limitandosi solo ogni tanto a filmare qualcosa coi propri telefonini.
Sul palco assieme alla danese, che suona il piano, ci sono anche una giovane violinista (che in alcuni pezzi suonerà la viola) e una violoncellista. Questa particolare formazione, più in linea con un’esibizione di musica da camera che un concerto rock, conferisce allo show un fascino tutto particolare sin dalle prime battute.
Si parte nel segno del primo disco, col breve strumentale “Louretta”, cui fa immediatamente seguito “Philarmonics”. Suoni nitidi al limite della perfezione (l’Alcatraz su questo è sempre stata un ottimo posto ma questa volta il livello è addirittura superiore) e atmosfera suggestiva, data anche da un uso delle luci semplice ma davvero sapiente. Da parte loro, le tre musiciste sono preparatissime e straordinariamente amalgamate tra di loro, cosa sorprendente, se si pensa che una delle due è appena entrata in formazione.
I brani vengono proposti in una versione molto vicina a quella del disco anche se per forza di cose leggermente più diretta e immediata. Qua e là compare qualche loop, soprattutto per gli episodi di “Aventine”, che dei due è forse quello che presenta gli arrangiamenti più complessi.
Per il resto, Agnes conduce l’esibizione in modo sapiente, bravissima sia dal punto di vista vocale sia da quello strumentale, appoggiandosi in continuazione alle sue due partner; è meraviglioso sentire come i tre strumenti si intrecciano e si compenetrano tra loro ed è notevole soprattutto la resa delle armonie vocali, dato che da questo punto di vista le ragazze si dimostrano essere ad un livello altissimo. Ciascuna di loro potrebbe tranquillamente cantare da solista e la cosa ha il suo peso nell’economia generale dello show.
A colpire è anche l’atteggiamento della Obel: per nulla montata, perfettamente a suo agio ma con quel po’ di timidezza che non guasta mai, si è mostrata genuinamente grata degli applausi del pubblico e ha interagito volentieri con la platea durante le pause tra una canzone e l’altra. Divertente, a tal proposito, il siparietto in cui, dopo avere scambiato qualche parola in danese con il suo fonico, si è rivolta a noi in inglese dicendo: “Scusatemi, lo so che la mia è una lingua molto strana!” Ma si è anche dimostrata sincera nel parlare delle sue canzoni: come quando, introducendo la strumentale “Wallflower”, ha confessato di sentirsi sempre più imbarazzata nell’eseguire dal vivo un brano che “ho scritto quando avevo diciassette anni e che è totalmente intriso di autocommiserazione. È molto probabile che al termine di questo tour non la suonerò più per cui questa potrebbe essere per voi l’ultima occasione di sentirla”.
Con due soli dischi all’attivo, la setlist non si presta a scommesse e congetture: da “Dorian” a “Fuel to Fire”, da “Riverside” a “Words are Dead”, vengono passati in rassegna tutti gli episodi migliori (anche se non è che ne esistano alcuni di scarso interesse). Unica eccezione, “Just So”, pur richiesta da qualcuno nelle prime file ma che, come ha spiegato sorridendo la stessa Obel, non era stata preparata.
Esecuzioni impeccabili ed emozionanti, come dicevamo, che hanno raggiunto l’apice in momenti come “The Curse” e “On Powdered Ground”, quando gli strumenti si sono lasciati andare in code strumentali di grande effetto e intensità.
Il tutto dura poco meno di un’ora e mezza e lascia tutti soddisfatti. Anche perché, una proposta di questo tipo, per quanto magnifica, alla lunga rischia di divenire pesante. Chiusura affidata alla cover di John Cale “Close Watch”, già inclusa nel primo lavoro, accompagnata dalla promessa di ritornare il più presto possibile.
Se pensate che il meglio del rock pop al femminile negli ultimi anni sia stato espresso da Adele e da Katy Perry, forse vi conviene fare un giro tra i dischi di Agnes Obel. Poi ne riparliamo…