A cavallo tra l’ultimo lustro del XX secolo e il primo del XXI, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart ha soppiantato “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo. Le classifiche non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane offerte a Praga (dove la “prima” si è tenuta il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con musica registrata.



Il “Don Giovanni” presentato il 16 maggio al Massimo di Palermo (dopo un assenza di 12 anni) gareggia, per carica innovativa e distanza  dalle letture tradizionali con quello offerto dalla  Scala ad inaugurazione della stagione 2011-2012 e con quello visto ed  ascoltato nel 2009 a Aix en Provence – e successivamente presentato a Toronto, in vari teatri europei ed ora in repertorio al Bolshoi. E’una delle proposte più interessanti per dare all’opera un forte significato attuale. Nell’edizione salpata a Aix,  Dmitri Tcherniakov (regia) e Louis Langrée (direzione musicale) mettevano in scena un crudo ritratto di famiglia in un infermo. In questa scaligera, Robert Carsen (regia) e Daniel Barenboim lavorando all’unisono, trasformavano il mito del “Don” in una riflessione disperata sulla solitudine di uomini e donne con finale a sorpresa.



In una luce glaciale, in una scena quasi nuda (con giochi di specchi, quinti e siparietti), Peter Mattei (Don Giovanni) non è alla incessante ricerca di sesso ma un oggetto del piacere (sempre iniziato ma mai completato) di tre donne indemoniate e disperatamente sole tanto quanto lui, Leporello e Don Ottavio. Solo il Commendatore (ucciso nel primo quadro ma sempre presente) sembra avere obiettivi chiari sia in vita sia nell’oltretomba. Alla Scala, Barenboim dilatava i tempi, secondo alcuni oltre il consentito (l’opera dura circa 20 minuti in più delle versioni più note) per fare avvertire il senso di tragedia moderna 

Un tragedia moderna è anche quella in scena al Massimo di Palermo. La drammaturgia (regia di Lorenzo Amato, scene di Angelo Canu, costumi di Marja Hoffmann) e la direzione musicale (Stefano Ranzani) presentano, in un contesto cupo (dal ‘re maggiore’ dell’’andante’  dell’overture), una parabola della solitudine e dell’angoscia di chi privo di valori (e che va sempre ‘in bianco  nei tentativi di conquistare donne, almeno nell’ultima giornata della sua avventura umana). Quindi sceglie consapevolmente la morte. Amato e Ranzani seguono l’edizione di Vienna, priva del ‘lieto fine’ moraleggiante. Ciò consente di dare loro corpo ad una tragedia quasi esistenzialista, in cui ci si pongono interrogativi attualissimi, anche se universali.

Ranzani è apprezzato soprattutto  come concertatore di lavori della seconda metà dell’Ottocento e dalla prima del Novecento; ricordo sue esecuzioni indimenticabili ,proprio a Palermo, di ‘Fedora’ di Giordano e di ‘Mefistofele’ di  Boito. E’ il migliore, in quel repertorio, nella nidiata allevata con cura dal grandissimo Gianandrea Gavazzeni. Avevo qualche perplessità nel saperlo alle prese con Mozart: la bacchetta è pesante, i tempi stringati, l’opera dura una mezz’ora circa della versione ascoltata alla Scala con Barenboim sul podio. Ranzani non offre una lettura lieve a cui si è usi. Ciò striderebbe con una drammaturgia con convenzionale ma perfettamente coerente con il mondo nebbioso più che notturno che Amato mostra sul palcoscenico. Un mondo pieno di labirinti, concettuali prima che nella rievocazione scenica dei giardini del settecento europeo. Un ‘Don Giovanni’ che può non piacere a tutti ma che induce alla riflessione su temi profondi. Alla prima , il pubblico di Palermo è parso gradire nonostante qualche commento acido ascoltato all’uscita.Di livello l’orchestra ed il coro diretto di Piero Monti.

Gli interpreti sono stati addestrati dalla regia ad una recitazione efficace ma la sera della prima non erano tutti all’altezza. Ottimi Carlos Âlvarez (il Don), Marco Vinco (Leporello), e Michail Ryssov (il Commendatore), tre veterani di lungo corso. Buoni Maija Kovaievska (Donna Elvira), Barbara Bargnesi (Zerlina) e Biagio Pizzuti (Masetto). Diseguali , e con problemi di dizione e di emissione, Rocio Ignacio (Donna Anna) e Tomislav Muzek (Don Ottavio); la prima mitraglia acuti anche quando la partitura non lo richiede, il secondo rende Don Ottavio un tenore brunito, che soprattutto nel primo atto ha avuto seri problemi con i bemolle e con i legato, mentre Mozart ha concepito il ruolo per quel tipo di tenorino lirico, di solito, con rispetto parlando, chiamato ‘tenore cappone’. Forse Muzek era in una brutta serata ma il Di Cento Affetti , pur applaudito a scena aperta, è stato un po’ una lezione su errori da evitare. Siamo all’inizio di quello che auguriamo sarà un lungo percorso della produzione; quindi, c’è modo di raddrizzare questi aspetti.