A partire da The Suburbs, capolavoro degli Arcade Fire risalente al 2010, la provincia nordamericana è diventata un luogo dell’anima, un sentimento ben preciso. Le periferie piccolo-borghesi a ridosso delle grandi città hanno iniziato a significare per tutta la scena Indie-Rock statunitense il ricordo, per quanto squallido e ingiallito, della propria fanciullezza, ovvero di un momento nella vita in cui tutto sembrava magico e speciale. Ma che così non era, purtroppo. La grande promessa non mantenuta del sogno americano del selvaggio Ovest o del profondo Sud si è notevolmente ridimensionata durante tutti questi anni, ma non ha sostanzialmente cambiato volto. 



Nessuno meglio dei Real Estate, formatisi a Ridgewood, New Jersey e trasferitisi a Brooklyn, New York una volta raggiunta la notorietà, può cantare questo dolce malessere. Nel 2010 danno alle stampe l’album d’esordio omonimo, mentre nel 2011 esce Days. Da subito vengono osannati dalla critica (da Pitchfork in particolare), ma solo con quest’ultimo Atlas raggiungono davvero la maturità artistica. Gli ingredienti base sono sempre gli stessi: un atteggiamento naif, un iconografia vintage e delle canzoni ricercate ma dall’aria zuccherosamente pop. Qualcosa di molto simile agli She & Him, o ai The Head and The Heart per chi li conoscesse.



Negli occhi di questi cinque ragazzi è nata una consapevolezza nuova, inimmaginabile prima d’ora. I Real Estate non sono più un gruppo dal ritornello facile e poco altro, i loro testi hanno acquistato una profondità inaspettata. Attraverso la descrizioni di azioni di vita quotidiana fanno capolino pian piano domande che hanno come tema il significato dello scorrere del tempo, la futilità del quotidiano, da dove nasce questa malinconia che ci portiamo addosso o se mai potremo essere felici assieme. Proprio a partire da uno sfondo ordinato e ordinario, dove la vita sembra scorrere lenta e senza troppi intoppi, queste domande si fanno più stridenti e fuori luogo. Rompendo la perfezione dell’immagine e rendendola, così, più interessante.



La produzione di Tom Schick ci restituisce un suono di una freschezza rara dove la voce di Martin Courtney e la chitarra di Matt Mondanile sono protagoniste assolute, che come il vento portano increspature su di un mare quieto e sonnecchiante come una tavola. Il tutto accompagnato da una sezione ritmica dall’andatura dinoccolata e ciondolante.

L’album si apre con Had to Hear, che esprime tutto lo stupore di questa nuova consapevolezza: “I don’t need the horizon to tell me where the sky ends/It’s a subtle landscape where I come from/I’m out again on my own”. Una coscienza conquistata girando in lungo in largo il globo terrestre e calcando I palchi di mezzo momndo. Troviamo poi Past Lives, a contrapposizione e completamento del pezzo precendente, piena di malinconia di un passato superato con gioia: “I cannot come back to this neighbourhood/Without feeling my own age/I walk past these houses where we once stood/I see past lives but somehow you’re still here”. Per giungere successivamente a Talcking Backwards, primo singolo pubblicato, che riassume con una singola strofa il significato dell’intero disco: “And I might as well be talking backwards/Am I making any sense to you/And the only thing that really matters/Is the one thing I can’t seem to,/Make sense of this dream,/It’s the one thing I can’t seem to do”. 

Una esigenza di significato che viene espressa dolorosamente anche in The Bend: “I’m just trying to make some sense of this before I lose another year,”. La mancata risposta al quesito si trasforma in ansia e paura in Crime: “Toss and turn all night/don’t know how to make it right/crippling anxiety/This crowd was growing old/If I may be so bold/Will you go straight with me?/I don’t wanna die/lonely and uptight/Stay with me/All will be revealed”. Un’ansia e una paura che forse solo un amore può lenire. L’album si chiude infine con Horizon: “I stare at the hands on the clock/I’m still waiting for them to stop/The earliest light is just shinning in/And I’ve no idea where the days been”. Posta, non a caso, alla fine delle danze, cerca invano una cura al passare del tempo.

Con Atlas i Real Estate hanno completato un percorso bruciando tutte le tappe. Sono riusciti a maturare e crescere nella propria produzione musicale senza snaturare il proprio sound. E’ un percorso che solo alcuni riescono a intraprendere e comporta in genere una preparazione molto più lunga. Non si può che rendere omaggio a loro e al loro lavoro ascoltando i loro pezzi e godendone della bellezza.

(Emanuele Lanosa)